Le case che ho abitato
di Elisa Sabatinelli / 10 settembre 2015
Le case in cui ho abitato avevano la porta marrone. Le case in cui ho abitato, ora non le abito più.
Di queste case non ricordo una planimetria precisa, non posso dire se il bagno fosse in fondo a destra o dopo il corridoio a sinistra.
Per ognuna di esse mi è rimasto impresso un unico spazio, come quando vai a teatro e sul palcoscenico c’è solo l’arredo della camera da letto che però rappresenta una parte per il tutto e allo spettatore non sembra riduttivo ma riesce bene a immaginare che di là (dove? Forse dietro le quinte?) c’è anche il salotto, la cucina, il bagno, delle finestre che danno su un cortile.
Nella mia testa le case che ho abitato hanno subito una riduzione simile, sono rimaste catalogate per spazi circoscritti, come se fosse successo tutto lì, come se anni interi potessero essere raccolti in angoli e punti precisi di un intero appartamento.
Della mia prima casa ricordo la porta a vetri che separava la zona notte dalla zona giorno, la frontiera che dopo le nove di sera non si poteva varcare, quando il coprifuoco aveva decretato che quella era l’ora di andare a letto. Da sotto le coperte contavo fino a cinque, poi mi armavo di ciabatte e strisciavo fino a quella porta. Un soldato in pigiama di circa un metro e mezzo di altezza. Di mio padre e mia madre percepivo solo le mezze lune della loro testa spuntare dal divano. Mi appiccicavo al vetro e guardavo – senza sentire granché – la Tv dei grandi. Era come stare in ultima fila alle recite scolastiche: vedevi qualcosa, percepivi qualcos’altro ma non capivi bene cosa. Un po’ tutto sfuocato, approssimativo. Però mi sentivo in compagnia, mi sentivo a posto col mondo; il brusio della Tv era una ninna nanna e mi addormentavo con immagini di donne in gonnella e lustrini o uomini noiosi in cravatta seduti su poltrone blu con i jingle pubblicitari come sottofondo, per svegliarmi il giorno dopo con il suono delle campane della chiesa, sempre in lontananza. La mia, all’epoca, era una vita di echi.
La porta a vetri era, dunque, un giusto grado di separazione che mi permetteva, al minimo accenno di movimento dei miei genitori, di defilarmi rapidamente verso il letto per non farmi scoprire. La porta a vetri è stata la mia fedele compagna per tutta l’infanzia.
Anni dopo ci trasferimmo in un’altra città di un altro Paese, e quindi in un altro appartamento. Di questo sono sicura di aver abitato solo l’ingresso esagonale sul quale si aprivano la sala, la cucina e il corridoio che portava alle camere. Ero sempre all’ingresso, una specie di limbo, intenta a entrare o uscire. Sparata come la biglia di un flipper verso gli ascensori di lamiera del condominio, mi agitavo nel mentre che questo scendeva gli otto piani, incapace di stare ferma, ero una pallina che seguiva un percorso preciso: ascensore, scale, rampa fino al mio bersaglio finale: l’esterno. Una biglia alla conquista di un posto nel mondo. Per anni ho solo vissuto all’ingresso aspettando di essere lanciata fuori. Non sono mai entrata in salotto, né in camera per dormire, non avevo bisogno di pranzi né cene e quindi non ho mai acceso i fornelli della cucina, non puzzavo e quindi non entravo in bagno per lavarmi. In quegli anni ero solo io. Il resto non contava e non mi importava. Non avevo tempo per il resto. Io volevo solo andare fuori, stare fuori, vivere fuori, essere fuori. Dopo aver vissuto l’ingresso, nella casa successiva ho abitato, per un anno, chiusa in camera da letto, anzi nel letto da camera perché era una camera quadrata piccola con un letto matrimoniale incastonato al centro. Quando la coinquilina mi aveva mostrato la camera che avrei dovuto prendere in affitto, c’era un letto singolo, un armadio a muro, una scrivania e una bella finestra. Era una piccola camera ma tutto sommato a me andava bene perché, lavorando tutto il giorno, dovevo starci poco. E invece dopo poche ore mi innamorai e sostituii subito il singolo con il matrimoniale perché speravo di trattenere l’amore e non farlo fuggire dalla finestra. Era impossibile entrare in camera da letto; c’era giusto lo spazio per aprire la porta e poi dovevi tuffarti a pesce nel letto. Sviluppai tantissimo il senso del tatto visto che per scegliere cosa indossare non potevo aprire per intero l’anta dell’armadio e infilavo il braccio nella fessura minima apribile pescando vestiti guidata dal mio quinto senso. Il letto era un’isola e me ne stavo sdraiata lì mentre fuori pioveva e lui entrava e usciva come gli pareva ma quando ho visto che lui preferiva il (suo) letto singolo, ho fatto le valigie e me ne sono andata dalla finestra, decisa a navigare verso un’altra città e un’altra casa con la speranza di non vederlo più.
Sono arrivata molto lontano, il più lontano possibile con la convinzione che la distanza avrebbe rafforzato l’oblio. Ho affittato per un breve periodo una nuova casa ed era una casa straniera ed estranea: non era mia e non la sentivo mia, nell’armadio non c’erano i miei vestiti e in salotto non c’erano i miei libri. Il proprietario, sapendo che sarebbe stato via per poco, aveva lasciato tutto invariato. E io avevo la sensazione di abitare qualcun altro, e non mi andava di appoggiarmi alle pareti perché era come toccargli la pelle o i capelli, come quando sei in metro e ti stringi in te stesso per non correre il rischio di sfiorare gli altri. Così ho deciso di vivere nel punto più centrale e anonimo della casa, quello più distante dagli oggetti e dai muri: stesa a pancia in su sulla moquette del salotto. Il mio corpo si stagliava sopra il folto tappeto rosso carminio, morbido e caldo, che faceva da materasso ai miei sogni proiettati sul soffitto di cartongesso bianco. Quando calava la notte, il mio amore compariva, come le ombre cinesi, sulle campate della casa che si infestava di ricordi mai vissuti, fino al giorno dopo, quando finalmente la luce del sole spazzava via le ombre e tutto sembrava calmarsi. Ho perso tanto tempo a guardare questo soffitto bianco di giorno e di notte con gli occhi sbarrati, finché una mattina è entrato un caldo vento di primavera che ha fatto traballare i mobili e la luce del sole era così forte che è riuscita a tinteggiare il cartongesso di un bianco perla e quando è arrivata la sera sul soffitto non vedevo più le ombre ma le stelle del cielo, così mi sono addormentata tranquilla e beata e ho dormito tante ore, forse giorni e qualche mese, e al risveglio ero in un’altra casa, molto grande, troppo grande, con tante persone, troppe persone. In questa casa enorme – che un tempo era stata una fabbrica di vernici – ho abitato in cucina, grande come la palestra della mia scuola elementare. Non c’erano tanti soldi e per scaldare gli ambienti avevamo solo una stufa a pellet che stava, appunto, in cucina. Quindi io non mi sono schiodata da lì per tutto l’inverno. In questa cucina transitavano più persone che giù per il corso il sabato pomeriggio e i pasti prevedevano solo due alternative: o pennette al pesto o toast al formaggio. L’odore di sottiletta bruciacchiata era il nostro Arbre Magique. Anche se in questa casa c’erano tante persone, io ne guardavo solo una. Una sera, durante una festa, ci ho parlato e mi sono accorta di stare di nuovo bene, avevo proprio la sensazione di farmi un bagno caldo dopo un lungo viaggio in treno. E giorno per giorno eravamo sempre più vicini fino a che ci siamo stretti così tanto da fonderci insieme e abbiamo deciso che quella casa era troppo grande per noi che occupavamo un solo spazio.
Me ne sono andata con lui in un monolocale e qui ho vissuto in bagno perché era l’unico spazio in cui potevi chiudere la porta. Mi ricordo durante un litigio sentirmi dire: «Dove vai?». Dove potevo andare? In bagno, perché era l’unica stanza che mi permetteva di sbattere la porta con un colpo secco e forte per far capire che ero arrabbiata. Non c’erano vie d’uscita, non potevo andare in camera perché la camera era il salotto e la cucina e l’entrata tutto insieme. Il letto stava dove il divano. La scrivania era il tavolo da pranzo, l’ingresso era l’uscita. Ogni oggetto aveva la sua dualità. L’unico spazio chiudibile era il bagno che diventò anche lo studio. Ricordo di aver fatto numerose interviste via skype a tarda notte a un famoso personaggio tv sempremoltoimpegnato per scrivere il suo libro seduta sulla tazza del water per non svegliare il mio compagno. E iniziare la skypecall dicendo: «Figurati, non preoccuparti per l’ora, sono nel mio studio seduta su una comoda poltrona per cui possiamo parlare quanto vuoi», e tornare a letto dopo due ore con le natiche appiattite come un cracker.
Il bagno era, tra l’altro, uno spazio sproporzionalmente grande in base al resto del locale: c’era pure la vasca. La vasca è un oggetto strano. Chi non ce l’ha sogna sempre di averla come se fosse l’elemento indispensabile per vivere bene, mentre chi ce l’ha sogna sempre di toglierla come se fosse un elemento di disturbo. E nel monolocale era decisamente un oggetto futile.
Io pensavo sempre che al posto della vasca poteva starci un letto singolo per ospitare qualche amica il sabato sera dopo una sbronza in pizzeria o una scrivania su cui appoggiare il computer durante le interviste (stando sempre seduta sulla poltrona).
Poi c’è stata un’esplosione, non fuori ma dentro di me che ha fatto cadere tutti i muri come una scenografia di cartapesta e ho guardato il mondo fuori ed era così grande, troppo grande per vivere uno spazio soltanto.
Ho smesso di abitare le case. Ho chiuso tutte le porte marroni, una dietro l’altra. Ho abbandonato uno a uno i singoli spazi, e mi sono trasferita al piano terra di un edificio vuoto dove ho iniziato a vivere.
Ho preso la porta a vetri della mia infanzia, l’ingresso, la camera da letto, il tappeto, la cucina, il bagno. Ho raggruppato e predisposto tutti gli spazi precedenti sotto un unico tetto, ho costruito un enorme palcoscenico dove montare questi arredi e ho iniziato a deambulare maestosa da una parte all’altra, come un’attrice navigata che calpesta la scena del suo piccolo paese dopo decenni di esperienza in importanti teatri stranieri.
Ora vivo questa grande casa nella sua totalità da destra a sinistra, su e giù, in lungo e in largo.
Varco la porta a vetri, spengo le luci della cucina, mi lavo i denti, mi addentro in camera, mi infilo nel letto, chiudo gli occhi e penso che tutto è fatto di altro, che siamo già “passato” prima che finisca il giorno. Che domani mi alzerò dal letto, mi laverò i denti, accenderò le luci della cucina e varcherò la porta a vetri pronta per essere sparata fuori. Come la biglia di un flipper conquisterò nuove mete, tornerò la sera con in mano qualcosa – anche solo un sassolino nella scarpa o uno scontrino nel portafoglio, oggetti che andranno ad accumularsi agli altri già esistenti sulle mensole della libreria, a comporre una storia dal finale aperto.
La mia grande casa è una matrioska fatte di altre case.
Le case che ho abitato, le abito ancora.
Elisa Sabatinelli (1985) è nata a Fano e cresciuta a Barcellona. Si è laureata in Sceneggiatura e cura il festival Cortili Letterari dedicato agli autori italiani under 35, che si svolge a Fano durante il periodo estivo. Attualmente abita a Milano e lavora nell’editoria occupandosi di coordinamento editoriale, redazione e traduzione.
Foto: http://www.domestika.org/es/projects/41708-casas-arbol
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