“Una ragazza con la valigia”
di Sanda Pandza
La storia di Petra, legata a doppio filo con quella della sua terra, la Croazia.
di Cristiana Saporito / 11 settembre 2015
Jacek Piotrowski non è esattamente Salgado. Per appendere gli occhi alle sue foto non è bastato spedirsi all’Ara Pacis. Sono dovuta atterrare a Danzica, dove ovviamente non sapevo che l’avrei trovato.
Nel Museo Narodowe, un’allettante mostra estiva (ancora più magnetica se si pensa che l’ingresso è gratuito) scolpisce su carta ritratti di città della sua Polonia. Un bianco e nero intimo, quasi confessato; una quinta teatrale ossuta, scarnificata, dove spesso compaiono solo pochi soggetti. Fabbriche livide, un muro sbrecciato, un decollo d’uccelli, bambini sfuggenti, case con poche pretese. L’unica costante, la presenza di un’auto, arcigna, squadrata o a volte più morbida, un “motore immobile” che scandisce ogni scena, tanto da intitolarne l’immagine. In ciascuno di questi scatti, seminati tra il 1984 e il 1993, il protagonista è uno solo e senza telaio: il Mondo del Prima. Lo stesso identico dominatore del libro che stavo leggendo.
Una ragazza con la valigia (L’Asino d’oro, 2015), esordio di Sanda Pandža, è una raccolta di polaroid.
La carrellata spoglia della vita di Petra, della sua giovinezza, strizzata in mezzo ad anni ispidi per la sua Jugoslavia, dalla morte di Tito fino alla guerra dei Balcani. Non alludiamo a frammenti da Istituto Luce o a reperti da tesina del liceo. C’è ancora poca polvere attorno a quegli eventi, eppure quel ciuffo di Paesi oltre l’Adriatico solo venti anni fa parlava un’altra lingua. Quella del massacro. E prima ancora, quella dell’obbedienza. Petra è cresciuta così a Split, catechizzata dal regime, religione di terra dove raramente si alza lo sguardo, figurarsi la voce. Ogni mossa è incasellata, ispirata al contegno e al sacrificio.
E suo padre è la riproduzione in scala del sistema imperante. Muto, immolato, anaffettivo.
Petra mangia lo stesso piatto, gioisce con misura, non può uscire con le amiche perché di sera per strada ci sono solo certe donne e le sue giornate sono ore intorbidite, subissate di studio e insofferenza. Tito è il compagno esemplare e il suo culto prosegue anche quando interrompe i suoi battiti. Che c’entra, che importa? Il suo compleanno è sempre in vita.
Eppure, da lì, la parete comincia a incresparsi. Fino al tracollo, fino a Berlino.
Petra intanto rosicchia l’aria, arrugginisce di viaggi mancati, è costretta a mentire, ad amare in segreto, a scoprirsi adulta con una mano di vergogna. Il sentiero guida, fornisce risposta e fuoriuscire vuol dire rischiare, scalfirsi col sole, capire che c’è altro oltre ai margini, oltre alla favola ideologica che ha sottratto più di quanto abbia concesso. Finché la Serbia impazzisce sognandosi immensa. Milošević arringa la folla, diluviano applausi, serpeggia il disastro. La menzogna si strucca mentre Petra si fa bella.
E poi basta un niente. La guerra divampa prima ancora di riuscire a pronunciarla. Le strade si frantumano, Petra si sbraccia per raggiungere il suo Mario, mentre il cielo non concorda, mentre soffiano gli spari.
Tutto quello che insanamente la dittatura era riuscita ad incollare, le identità difformi, le preghiere stridenti, i vari modi di chiamare Dio o d’ignorarlo del tutto, si sgretola di colpo.
E quel colpo ovviamente annichilisce anche suo padre, sbriciola le certezze minute rimaste nei pugni.
Ma forse non è stato un male: «Scoppiai in lacrime, singhiozzi scuotevano tutto il mio corpo. Mi buttai sul petto di mio padre, quel petto che da piccola mi aveva cullato col proprio respiro mille volte. Mi sembrò come se una delle schegge di quelle bombe impazzite avesse spaccato il ghiaccio intorno a lui facendolo sciogliere. Fuori, il mondo crollava in pezzi, dentro quel rifugio antiatomico, mio padre mi abbracciò».
L’alternativa è solo la fuga, un’altra costa in pace dove riformularsi, districando quegli sguardi accartocciati e quei pensieri perdenti. La stessa via percorsa dall’autrice, che nel’91 abbandona Spalato per trasferirsi a Roma e sentirsi sua, non più indottrinata. Per riconquistarsi. Ed è per questo che Una ragazza con la valigia conosce la luce della pubblicazione. Per cesellare la distanza del racconto e permetterle di focalizzarsi. Sanda Pandža è una donna nuova, anche grazie ai seminari di Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, che per la stessa ammissione di Sanda l’ha «resa libera», come individuo prima che come scrittrice.
Prova apprezzabile la sua, per la sincerità dei suoi fatti molto più che per l’intensità dello stile, stringato nella sua accuratezza di lingua acquisita, ma mai originale, spesso quasi “di servizio”.
La sua forza vibra tutta in quel Mondo del Prima, quegli scatti da museo dei tempi prossimi, che risuona nei romanzi di Vasile Ernu, Elvira Dones o Matthias Frings. Quel poco fa così irraggiungibile che occhieggia dentro una mostra lontana, a disilluderci di quel passato che adesso chiamiamo “futuro”.
(Sanda Pandza, Una ragazza con la valigia, L’asino d’oro, 2015, pp. 151, euro 12)
LA CRITICA
Un salto nella Spalato degli anni ottanta, in cui l’autrice rivela la storia della sua terra e della sua rinascita. Testimonianza onesta narrata in un’asciutta lingua d’adozione.
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