“Fervore”
di Emanuele Tonon
Il romanzo dell'essere e della nostalgia
di Riccardo Romagnoli / 7 marzo 2016
Fervore, di Emanuele Tonon (Mondadori, 2016), si può leggere in molti modi, come l’Essere, sosteneva Aristotele, «si dice in molti modi». Non sono mancate e non mancheranno reazioni diverse a questo romanzo, e spero che si continui ad analizzare Fervore perché dà un piacere vero al cuore sapere e vedere che si pubblicano ancora romanzi veri e che a pubblicarli sono anche grandi case editrici.
Torniamo a Fervore e ai pensieri che il libro produce. Il romanzo parla di un’esperienza religiosa, di un ragazzo di vent’anni senza nome, di un io narrante che prende le distanze dal “tu” che sembra essere una proiezione dell’io e una sua ectoplasmatica creazione. Poi ci sono i “noi” che sono i novizi e per espansione tutti i frati francescani. In alcune parti troviamo pure i “voi” che, insieme al “tu”, mostrano una presa di distanza che a volte emerge e a volte invece resta sommersa e, chissà, neppure c’è.
La religione si coniuga con una giovinezza acerba dei novizi che sono descritti dal momento in cui giungono nel convento di Renacavata e poi seguiti nei loro incerti passi verso l’iniziazione ai voti.
I novizi sono ingenui, confusionari, impacciati. Mescolano, senza cognizione, l’amore sacro e quello profano, dormono assillati dai piaceri della carne che insinuano le loro nervature nei piaceri dello spirito. Sono entusiasti perché ignoranti. Sono allegri perché inconsapevoli. La loro esuberanza e il loro sangue caldo esplodono pur nei luoghi tetri e oscuri del convento. I novizi spesso sono paragonati ad animali di vario tipo (pesci, girini, foche, batteri, balene, anguille, serpenti, canarini, capodogli, fringuelli, scimmie) quasi fossero fatti della pasta grossa di bestie ingorde e ottuse.
Se l’intera narrazione si svolge al passato e l’occhio del narratore mostra, già con l’uso dei tempi verbali (il terribile e chiuso passato remoto) che l’età presente è radicalmente diversa, però resta una eco profondissima di nostalgia, e di una giovinezza lieta e, soprattutto, di una vita (la vita claustrale) che era il Giardino, che era l’Eden prima del peccato originale, che era la fede in un uomo e in un mondo nuovi perché ricreati dalla forza divina.
«Né maschi né femmine eravamo, in quella sacra rappresentazione. E maschi e femmine eravamo, allo stesso tempo. Eravamo quella carne che tendeva all’unità, all’inseparato, all’uno. E potevamo fingere di essere in quell’unità vestendoci da donne barbute per quel poco tempo che era concesso dall’innocente Carnevale del convento […] Nel Giardino l’uomo e la donna erano nudi senza vergogna, erano una cosa sola. Volevamo solo tornare indietro, ritornare nell’utero, nel Giardino a mangiare i frutti, nudi, felici come i feti soli sanno essere». Questa citazione (si riferisce a un carnevale festeggiato nel convento con i novizi che si travestono da ragazze) rivela come il Giardino sia un ritorno all’utero materno, a quella condizione protetta in cui il bambino non ancora nato vive in una specie di simbiosi col tutto.
Il Genesi dice: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”». Il primo uomo (androgino) vive indifferenziato ed è capace già di procreare. Così vivono i novizi? Il loro amore è così puro, nel Giardino, da far dire all’io narrante: «Di quegli anni pieni di fervore, solo questo, veramente, ti resta: quella carità, quel limpido amore».
Il fervore del titolo è il fervore che accompagna i novizi che, pur sempre nel gelo e nel freddo, hanno questo calore interno: «Sul mondo scendeva l’inverno, ma il gelo non poteva intaccare il nostro fervore».
Ci sono il freddo fuori e il calore dentro. C’è il vento che fin dal primo capitolo (il bellissimo “Dossologia del vento”) si insinua attraverso crepe e fessure ed entra nella tonaca per risalire lungo il corpo nudo. È il vento dello spirito, lo πνεῦμα, l’anima, che nella sua etimologia rimanda all’ἄνεμος greco. Lo Spirito Santo come fiamma si mostrò ai discepoli dopo la morte di Gesù e, nella Pentecoste, produsse il miracolo delle lingue, quella glossolalia di cui Tonon parla e che caratterizza ancor più i novizi come nuovi bambini, neonati che usano un linguaggio incomprensibile perché divino.
I novizi, che sono, in qualche modo, stupidi nel loro candore, hanno la stupidità e la spensieratezza infantile dei poveri in spirito. Non conoscono il bene e il male. non hanno mangiato della mela di Lucifero tentatore. Si può cogliere una diretta associazione col film di Pasolini Uccellacci e uccellini, con l’episodio che racconta dei due frati (Totò e Ninetto Davoli) che vanno a parlare con gli uccelli, con i passeri e con i falchi, tentando di evangelizzarli. I novizi di Tonon conservano la stessa gioia onnipotente che non fa arretrare davanti all’impossibile perché l’impossibile non esiste. Il gioco si contrappone alla serietà della vita e ne prende il posto.
I ragazzi del convento di Renacavata possono avere tutti i difetti che derivano dalla loro purezza un po’ animalesca e semplificatrice. Ma non hanno assolutamente alcun cinismo, alcun tornaconto personale, alcuna doppiezza. Credono con una forza cieca e adamantina. Credono.
Tonon in Fervore fa trasparire la nostalgia di una fede e di un’età della vita in cui la speranza era reale. La dimensione sacra, una volta persa e di proposito distrutta e amputata quasi fosse un tumore maligno, diviene nostalgia pura, e diviene pena e punizione che rendono inabile all’esistenza chi ha sperimentato il tempo eroico dell’assoluto e del trascendente.
Non a caso il romanzo si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni: «Io ho loro data la tua parola, e il mondo li ha odiati, perciocché non son del mondo, siccome io non son del mondo. Io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li guardi dal maligno. Essi non son del mondo, siccome io non son del mondo».
La condanna, per chi abbandona il terribile cerchio del numen, è l’incapacità sostanziale a trovare un nuovo modo di adattarsi ai nessi di vita che sono divenuti meccanismi senza senso.
La sofferenza che si respira leggendo Fervore, è, a mio avviso, originata dalla nostalgia che significa dolore per il ritorno o dolore perché si vuole tornare (νόστος, ritorno + Ἄλγος, dolore). La nostalgia di Fervore non prevede ritorno. È destinata a permanere. La patria abbandonata è, come sostenevano gli gnostici, il luogo primigenio da cui l’uomo deriva, cioè Dio, ma, in Tonon, Dio è «un Dio che avevamo preso l’abitudine di inventarci», è il «nostro Dio immaginato». Non c’è, è un prodotto dell’uomo, è una droga che ricorda l’oppio dei popoli di marxiana memoria: «Tu ci avevi creduto. Avevi creduto fosse possibile far crescere la tua carne con la sola forza di volontà, col sacrificio, tirando su tonnellate di ghisa, massacrandoti di ripetizioni […] Credevi che bastasse la tua volontà, la tua fatica, il tuo orgoglio, il tuo coraggio. Poi ti sei accorto che i tuoi muscoli intostavano e seccavano, che ti si prosciugava la carne, che Dio era in realtà contenuto in un flacone, in due flaconi, che le siringhe aprivano la strada per il Regno dei cieli».
Era stato impossibile ingrossare i muscoli a forza di esercizi. Per i grossi muscoli servono steroidi e Dio è come uno steroide che ti pompi nelle vene e ti dà la santità o forse la felicità.
Non ci sarà nessun ritorno. Restano la nostalgia e la consapevolezza che una volta usciti dal Giardino «li avresti veduti morire ad uno ad uno, come animali in estinzione, i frati della fatica, quelli che avevano permesso per secoli ai conventi di esistere».
La gabbia in cui sta il canarino è prigione e protezione. Chi ne uscirà è destinato a morire e chi non ne uscirà è destinato a vivere schiavo e recluso. Infelice in un modo, infelice nell’altro modo.
(Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori, 2016, pp. 108, euro 17)
LA CRITICA
Fervore è da leggere e da amare. Il suo linguaggio denso e lirico si coniuga a tematiche forti e assolute. La scrittura trova, in questo romanzo, la sua piena attuazione in una forma che si adatta perfettamente al contenuto.
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