“Io e Mabel”
di Helen Macdonald

Sulla perdita del padre e del senso della vita

di / 22 aprile 2016

Io e Mabel copertina Flanerí

Io e Mabel. Ovvero l’arte della falconeria di Helen Macdonald, pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Anna Rusconi, è un memoir personale di un dolore unico e universale come può essere la perdita di un genitore. È un tema che è stato ampiamente dibattuto nella storia della letteratura e in generale delle varie forme artistiche. Lo scorso anno, l’esordio di Marco Peano con L’invenzione della madre aveva giustamente attirato l’attenzione dei lettori e della critica, mentre al cinema un maestro come Nanni Moretti aveva sentito l’esigenza di raccontare l’esperienza della perdita della madre nel suo ultimo film, eppure ogni volta è possibile scoprire delle sfumature nuove.

Helen Macdonald insegna letteratura a Cambridge e coltiva da sempre una grandissima passione per l’ornitologia. Quando suo padre, un noto fotografo di costume e natura, è morto, ha vissuto un periodo di profondo sbandamento. Per arrivare alla fase finale dell’elaborazione del lutto ha raccontato la sua storia in Io e Mabel, premiato in Inghilterra con il Samuel Johnson Prize, il più prestigioso premio per la non-fiction, e con il Costa Book Award.

La perdita del padre, nella forma della non-fiction, sembra essere uno dei temi caldi della letteratura di quest’anno in Italia, con il libro autobiografico di Simona Campo, Dove troverete un altro padre come il mio, entrato nella dozzina dello Strega.

In tempi recenti, lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgard ha dedicato allo stesso argomento il primo libro della sua torrenziale autobiografia in sei volumi La mia lottaLa morte del padre, ripubblicato di recente da Feltrinelli. Macdonald e Knausgard partono da premesse completamente diverse per raccontare la scomparsa. La telefonata che precipita Helen nel vuoto della perdita arriva subito, al secondo capitolo che non a caso si intitola Persa. Knausgard aspetta quasi trecento pagine, crea un contesto in cui far sparire un personaggio. Eppure, entrambi testimoniano del vuoto di senso immediato che comporta la scomparsa. Knausgard parla dello spazio maggiore che richiede la sua realtà interiore dopo la perdita, che rimane «immutata, l’unica differenza era che adesso richiedeva più spazio e quindi spingeva via quella esterna. Non avrei saputo spiegarla in altro modo», Macdonald sottolinea la perdita di senso del mondo: «Niente di tutto ciò aveva significato per me. Per settimane ebbi la sensazione di stare sordamente fondendo, come metallo, tanto che a un certo punto arrivai a pensare, non esagero, che se mi fossi seduta su un letto o una sedia avrei finito per fondere anche loro».

Leggere Io e Mabel può far venire in mente L’invenzione della solitudine, un altro memoir sulla perdita del padre firmato da Paul Auster. Anche lì, come in Macdonald e a differenza di Knausgard, la morte del genitore si consuma nella primissima parte del testo, addirittura nel secondo paragrafo della prima pagina: «La notizia della morte di mio padre mi ha raggiunto tre settimane fa. Era una domenica mattina, e stavo in cucina a preparare la colazione per il piccolo Daniel, mio figlio […] Poi squillò il telefono. Capii subito che era successo qualcosa. Nessuno ti chiama alle otto di domenica mattina se non per darti una notizia che non può aspettare; e a non poter aspettare sono sempre le brutte notizie». Anche a Helen Macdonald la notizia arriva per telefono, interrompendo una giornata come le altre: « Stavo per uscire, quando suonò il telefono. Risposi. Di fretta, le chiavi di casa già in mano». Helen, nello shock della notizia, cerca di vivere il resto della giornata come niente fosse, addirittura confermando il pranzo fuori con l’amica e lasciandosi consolare da un cameriere con un dolce al cioccolato. È una finta, il tentativo di mascherare lo sconforto e lo smarrimento nel quotidiano. La morte del padre getta Macdonald in un nulla di senso completo. Mentre Paul Auster afferma immediatamente di non aver subito la scomparsa come un impatto traumatico («Non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse») e di aver concentrato le settimane successive a voler ricostruire la vita del padre per capire chi fosse davvero, alla ricerca di quelle tracce che crede che non siano state lasciate dietro di lui, Helen Macdonald deve ricostruire un mondo, il suo, ormai scivolato per intero nel lutto.

Per cercare di dare un ordine a quel lutto infinito, decide di guardarlo dall’alto. Torna a una sua passione di sempre, scoperta accompagnando bambina il padre fotografo nelle sue escursioni: la falconeria.In passato, Helen ha già allevato altri rapaci, ma decide di misurarsi con un’astore, forse l’uccello più difficile da addomesticare. Lo fa seguendo la traccia di un libro scoperto al primo apparire della sua passione per i rapaci. Tra manuali antichi di falconeria, trattati tra il filosofico e lo scientifico scritti centinaia di anni prima, un romanzo aveva sempre continuato a rimanere vivo nella sua testa da quando lo aveva scoperto nell’adolescenza. È The Goshawk di Terence Herbury White, l’autore noto soprattutto per aver ispirato la disneyana Spada nella roccia. In The Goshawk – mai tradotto in italiano –, White racconta il suo tentativo di addomesticare un astore culminato in un sostanziale fallimento. Helen si accorge sin da bambina che in quel testo manca completamente il rigore degli altri volumi che stava iniziando ad assimilare, eppure c’è qualcosa che lascia in lei un segno più forte. È la disperazione di White, un uomo allo sbando nella vita privata, costretto a reprimere ogni giorno le sue pulsioni omosessuali che lo portavano a una sostanziale sociopatia. Nel tentativo di addomesticare il rapace, lo scrittore cercava la possibilità di ordinare la natura.

Helen, a differenza di White, sa come addomesticare la sua Mabel, l’astore di dieci mesi che diventa il centro della sua vita. Come White, cerca nel rapporto con l’animale un senso ulteriore di potere sulla natura. È un rapporto che segna il cambiamento e il ritorno in sé di Helen, perché «Mabel è più di un’astore. È uno spirito domestico, il mio piccolo nume tutelare». Il rapporto che Helen instaura con il suo rapace è disperato. Mabel è indomabile, la ignora, la fa impazzire. Di fatto, vivere con Mabel è anche «come adorare un iceberg, o una slavina battuta dal vento gelido».

Eppure, Helen continua nel suo tentativo. La natura spietata dell’astore la pone in contatto costante con la morte, che è il mostro contro cui combatte. Il rapace uccide senza pietà; in molte culture falchi e simili sono simboli di collegamento tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Helen affida il suo ritorno alla vita al rapporto con Mabel, dopo aver sorvolato con lei il mondo più selvaggio e meno umano: «avevo portato l’astore nel mio mondo per poi fingere di vivere nel suo». Il rifugio nel mondo selvaggio, però, non basta. È questa presa di coscienza che porta Helen di nuovo a vivere, a rimettere ogni cosa al proprio posto, Mabel nel cielo, i suoi piedi per terra, e il padre da qualche parte nei ricordi.

 

(Io e Mabel. Ovvero l’arte della falconeria, di Helen Macdonald, trad. di Anna Rusconi, Einaudi, 2016, pp. 292, euro 19,50)

 

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LA CRITICA

La perdita di un genitore è uno degli argomenti ricorrenti nella storia della letteratura. Nel suo racconto autobiografico Io e Mabel, Helen Macdonald ricorre al parallelo con la natura e con la falconeria per raccontare la sua rinascita.

VOTO

8/10

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