“Chi di noi” di Mario Benedetti
di Cristiana Saporito / 3 giugno 2016
Si pescano frasi come conchiglie a volte. Scartabellando pagine che sembrano spiagge. In un pellegrinaggio, salmastro come tanti, sono atterrata in questo fossile: «Ogni triangolo (sia acuto, rettangolo o equilatero) ha un suo profumo spirituale. Paragonato ad altre forme questo profumo si differenzia, acquista delle sfumature, ma rimane fondamentalmente immutabile, come il profumo della rosa che non si può confondere con quello della mammola».
Lo afferma il matematico Michele Hemmer, che in quell’architettura d’essenza riesce a scorgere un odore irripetibile. Un accordo segreto di linee, combinate per mostrarsi semplici. E tradire per gli occhi comuni l’innata attrazione verso il tortuoso.
Chi di noi (Nottetempo, 2016), romanzo d’esordio dello scrittore uruguayano Mario Benedetti, pubblicato in Italia dopo più di sessant’anni, è la storia di un triangolo. Sicuramente scaleno. Si geometrizza così, fin dalla copertina. Una donna stilizzata, padrona solo di una bocca, una sontuosa acconciatura e un paio di orecchini. A pendere sospesi dai lobi inespressi, due teste maschili. Rivolte in direzione opposta. E quindi, incapaci di guardarla. La vicenda è già pronta, è tutta qui. E ovviamente è anche tutt’altro.
I lati si chiamano Miguel, Alicia e Lucas. E ogni lato fornisce una visione dei fatti. Ad avviare la trama attraverso un diario è proprio Miguel, adolescente incappato in Alicia e nella soffice quiete che gli offrono le sue parole. Quel riparo di fiati e d’intese mentre pestano solite strade. Una bolla d’incanto a cui Miguel non sa credere del tutto. «…io che provavo per Alicia una tenerezza immutabile di cui nemmeno ora mi vergogno, non potevo sentirmi in stato di grazia, perché ero convinto che innamorarsi fosse più […] del mio fervido desiderio di averla accanto, dei dodici isolati di chiacchiere. Immagino, invece, che debba essere molto meno».
Miguel non sa fregiarsi di quella beatitudine spicciola, quelle monete di calma perfette per stargli tra le dita. Ed è qui che sbuca Lucas, col suo silenzio estenuante, in grado di grattare qualunque confessione. Alicia da lui si sente scossa, irritata, solleticata oltre il fastidio. Il segmento non è più sufficiente. E quel tremore stizzito, quel bruciarsi di scontri continui sono per Miguel la prova specchiata di ciò che lui da lei non avrà mai. Miguel si sente perdente, si marginalizza, lascia agli altri la parte più ingombrante di destino. Ma il destino recalcitra. Ma Alicia ritorna e chiede di essere sua. Undici anni di matrimonio, undici anni malgrado, che lei definisce nella sua versione epistolare «senza infamia e senza lode, aspettando non so cosa». Anni farciti d’assenza, soprattutto quella di suo marito.
«Da te non veniva niente. […] L’immagine di me stessa che vedo in te è davvero irriconoscibile, è piena di estraneità e di un’inevitabile, stanca presa in giro».
Alicia è ingabbiata dal fantasma di Lucas, dall’angoscia impigrita di Miguel, dal suo amore convinto di restare minore. «So di essere stata terribilmente ottusa quando mi sono complicata la vita con la tua decisione, ma tu mi hai umiliata molto di più accettandomi senza convinzione, consapevole che non saremmo stati soli, perché l’Altro che avevi creato, il Lucas della tua testa, si era insediato provvisoriamente dentro di te». Quegli anni coniugati sono solo un ruolo, un copione stagnato e irremovibile in cui vince sempre chi manca. Il loro è un rapporto congelato, tra le pendenze e le incoerenze scolate fino ai figli.
Miguel continua a farsi martire, “testimone” di un incompiuto che attende di sciogliersi nell’occasione ideale. È lui il regista del riavvicinamento tra Alicia e Lucas, l’orchestratore disposto a rinunciare a sua moglie perché non ha saputo volerla davvero, per suffragare il teorema delle sue debolezze. Manipola gli eventi per non lasciare altra scelta: «Ho pensato che l’unica soluzione possibile sia farli sentire colpevoli. Se io uscissi spontaneamente di scena, se lasciassi il campo completamente libero, il mio atteggiamento acquisirebbe ai loro occhi la forma di un sacrificio».
L’ultima parte della storia spetta a Lucas, lo scrittore, che decide di sublimare la realtà trasformandola in finzione, narrando il loro incontro, il ritorno di Alicia dopo rughe e distanze, secondo l’ipotesi migliore, che solo la letteratura può garantire. Assegna un altro nome a ciascuno di loro, ribattezza quelle facce per consegnarle a nuove vecchiaie. Ma ciò che è stato è pelle morta e non può più sorridere.
Benedetti elabora in poco più di cento pagine una disamina schiacciante dei rapporti umani, degli equilibri funambolici in cui navighiamo da acrobati storditi. Cadendo vittime delle nostre stesse tele, del bisogno di sentirsi inappagati. Con la fame che non dorme e l’appetito di altre insonnie.
Il triangolo è una figura ricorrente nei perimetri romanzati, da Edward M. Forster a Michael Cunningham, da Emily Brontë e Jorge Amado e qui il profumo privato di questa geometria è quello di un concerto di solitudini, dove ogni voce canta ancora l’illusione di essere toccata.
(Mario Benedetti, Chi di noi, trad. di Stefania Marinoni, Nottetempo, 2016, pp. 126, euro 12)
LA CRITICA
Da acuto scultore delle dinamiche sentimentali, Mario Benedetti esordisce nel 1953 con un romanzo nitido e penetrante sulle infinite sconfitte dell’amore, restituendoci una polifonia disillusa e piena di verità.
Comments