“Tokyo transit” di Fabrizio Patriarca
Viaggio allucinato nella Tokyo del duemila
di Danilo Zagaria / 8 febbraio 2017
Anno 1997. Una band canadese chiamata Strapping Young Lad pubblica il suo secondo full-lenght. Si intitola City e fra i musicisti che danno vita a quel capolavoro della musica estrema ci sono il terremotante Gene Hoglan (alla batteria) e l’indiavolato Devin Townsend (alla voce). L’album è un concentrato di furia allucinata, un torrente ininterrotto di riff, campionamenti e linee vocali sofferte, rabbiose. Dai testi, tutti scritti dal frontman della band, erompono diverse richieste d’aiuto. Qualcuno sta male: un uomo, forse l’umanità intera. E tutto fa presagire che sia proprio la società nella sua forma materiale, il conglomerato urbano – la metropoli o, meglio, la megalopoli del nuovo millennio – a causare tanto caos e tanto sgomento. La prova sta nel libretto dell’album: le foto di una Tokyo notturna, lisergica e sfocata, sono lì a dimostrare che la fonte dei nostri mali è difficilmente percepibile perché ci viviamo dentro. È l’intrico della copertina del disco: nero, confuso, tecnologico.
Circa dieci anni dopo Tokyo è rimasta, almeno nell’immaginario, la stessa città di City. A mostrarcela è uno scrittore italiano: Fabrizio Patriarca. Il suo romanzo, Tokyo transit, pubblicato da 66thand2nd, è largamente ambientato nella capitale nipponica e ne descrive l’anima eccentrica che erompe una volta squarciato il velo dell’apparenza. A guidare il lettore nei recessi notturni della metropoli è Alberto Roi, protagonista spiantato di una storia che ne descrive, grazie ad alcuni flashback, la crescita e la rovinosa caduta: da rampollo italiano con tante speranze a guida turistica per facoltosi occidentali in cerca di sesso, droga ed esperienze al limite in estremo Oriente. Fra una sniffata e un love-hotel, Roi diventa il cicerone di un lettore che, catturato dalla prosa barocca di Patriarca, non può esimersi dal visitare in lungo e in largo la Tokyo turistica, la Tokyo nascosta e la Tokyo di tutti i giorni. Flâneur contemporaneo, l’anti-eroe di questa opera osserva i locali al neon controllati dalla Yakuza di Roppongi (il luogo dove «succede sempre qualcosa»), le aree residenziali di Shinagawa e la bizzarria della grande isola artificiale di Odaiba. La città, potremmo dire, è il co-protagonista del romanzo: un personaggio dai tratti assai misteriosi, che concede molto al riparo da occhi indiscreti e che in altri momenti si veste di serietà, dedizione e riserbo. Tokyo è «come la cameretta di un adolescente corale, fissato con mille gingilli, mascherato da Pokémon».
Tokyo transit è, per certi versi, un romanzo picaresco alla cocaina. Non contento di un set così zeppo di luci al neon com’è la capitale giapponese, Patriarca ha dopato il suo narratore. Per andare sul sicuro. Per evitare che laddove l’incedere del racconto rallentasse troppo, l’asticella dell’attenzione non s’abbassasse più di tanto grazie agli arabeschi letterari e alla prosa su di giri. Il risultato? Il romanzo è lungo trecento pagine, ma la densità di ognuna di queste è altissima. In Tokyo transit non accade più di tanto, questo è vero, tuttavia è impossibile restare indifferenti di fronte alla ricchezza lessicale di Patriarca e alla sua abilità nel descrivere anche l’azione più insulsa nel minimo dettaglio, con una dedizione che rasenta il feticismo letterario. È doveroso sottolineare che la grande forza del romanzo è anche la sua debolezza (l’unica, forse). A volte si ha l’impressione che in alcuni passaggi l’autore, preda di un raptus, abbia voluto esaurire pagine e pagine di vocabolario, utilizzando anche il più impesabile e alieno dei lemmi. Malgrado ciò, una volta giunti al termine del libro si perdonano all’autore tutte le verbosità. Perché, in fin dei conti, non fanno altro che valorizzare l’affresco drogato che l’autore ha composto a partire da una condizione esistenziale borderline e una società allucinata ed eccessive.
Nel disco City gli Stapping Young Lad urlavano al mondo la disperata condizione del cittadino moderno, costantemente osservato da mille occhi ma al tempo stesso abbandonato da tutti. Solo in una delle più grandi città del mondo. Oggi Patriarca aggiunge una narrazione alle tante che Tokyo ha ispirato nella sua storia secolare. In questo romanzo dalla trama impalpabile viene descritta una nuova modalità di viaggio, un modo di interagire con i moloch metropolitani della contemporaneità che è arrendevole e subdolo in partenza, distante anni luce dalla Lonely Planet: «Le città non si espugnano, puoi solo depredarle». Dunque, la città come conglomerato di anime, relazioni e attività da spremere per poter sopravvivere. Non si può fare altrimenti, perchè se il mostro di cemento ti schiaccia, non puoi che rispondere in modo altrettanto duro, pur sapendo che la verità innegabile è una sola: «la vera ecologia del nostro tempo è una scienza dell’infelicità».
(Fabrizio Patriarca, Tokyo transit, 66thand2nd, 2016, pp. 308, euro 18)
LA CRITICA
Grazie alla prosa enfatica di Fabrizio Patriarca, la capitale nipponica emerge in tutto il suo sinistro splendore. Un romanzo che mette il lettore in trappola, catturandolo grazie all’affresco ferale e umorale che l’autore dipinge a partire dalla metropoli nipponica e dalle bestie, vittime e carnefici, che la animano.
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