“Nel guscio” di Ian McEwan
Una prova di abilità brillantemente superata
di Cristiana Saporito / 3 maggio 2017
Ero curiosa, è il caso di affiggerla come premessa. La combinazione titolo-autore mi è parsa quasi dinamitarda. Ian McEwan, dopo tre anni di gestazione, affolla pedane e vetrine con Nel guscio (Einaudi, 2017). Trascinante monologo intrauterino.
Così è condensabile il tutto, ma trattandosi di McEwan, espansioni e derive sono ingranaggi congeniti. Componenti cromosomici della sua chimica del dire.
Un feto innominato, assiste dalla sua botola carnosa al dipanarsi di un delitto. Sua madre Trudy lo ospita addosso come un pasto indigesto; la sua bellezza è afflitta da quel macigno che stride con tutto il resto. I capelli intrecciati nell’oro, gli occhi di prato, il naso accennato, braccia e gambe lunghe e leggere. E poi seno e addome ingrossati come un obbligo. La fatica artigliata di salire le scale, la costrizione di sentirsi abitata. Non c’è gioia annidata in quello spazio d’attesa. Trudy pensa ad altro.
Pensa a lasciare John, futuro padre e futuro ex marito. Poeta ancora innamorato, editore idealista. Uomo buono e sempre iniettato d’intenzione pulite. Ma a lei non basta più. Lei vuole Claude. Arrivista, inconsistente, ricco e azzardato. Fratello, cognato. Avido di ciò che non gli compete: di una donna aggiudicata e perfino parente, di un centro della scena che lo scruta diffidente. Invidioso di John, primogenito elevato, carismatico, profondo. E disposto a erodere tutto il terreno possibile intorno al suo nome.
Moglie e amante, accesi da pochi minuti abbaiati, cuciti nel rigurgito del loro desiderio, complottano alle spalle della vittima eccellente. E, nel morbido annacquato della sua trincea, il nascituro snocciola tutto quello che sente. Ausculta, origlia, intercetta; tutto sa pur non vedendo. Ignora le fattezze di madre e padre, eppure li descrive entrambi in modo fiammingo.
È incapsulato nel ventre di una data, di una scadenza che vorrebbe avvicinare. Nuota nella sua impotenza. Sente i due traditori bussargli nella tana, infoiati, irriverenti, come chi vuole scordarsi cosa sta per accadere. Capisce che il padre, suo malgrado, sta per morire, sa come avverrà e sa che è destinato a rimanere immobile. Che resterà orfano prima di averlo abbracciato. Che per altro in fondo è figlio di due anaffettivi (almeno con lui), mai nelle maglie dei loro pensieri.
Che Trudy gli sta imponendo la prima privazione, uncinata, colossale, inguaribile. Che quella madre odora di matrigna, anche se lui non può non amarla, mentre la odia. E nella sua stratosferica acrobatica plasticità linguistica, McEwan mette in bocca di un personaggio infinitesimo un lessico enorme, spropositato, quasi a suggerire un’onniscienza originaria, un’innocenza impossibile. Una voce fuori campo più dentro che mai.
Il feto è di volta in volta sociologo, psicologo, filosofo, sommelier. Viene quasi voglia di chiedergli dritte per qualche investimento finanziario. Non è ancora nato e si pronuncia così: «Nel mondo della pittura e dell’incisione ci sono artisti che si sviluppano in spazi ristretti. L’esiguità dei loro soggetti può deludere o trarre in inganno qualcuno. Il cerimoniale del corteggiamento tra la piccola nobiltà del diciottesimo secolo, la vita a bordo di un veliero, conigli parlanti, lepri scolpite […], nudi reclinati, natività a milioni e poi crocifissioni e assunzioni, coppe di frutta, fiori in vaso. […] Vivere confinati in un guscio di noce, vedere il mondo in due pollici d’avorio, in un granello di sabbia. Perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile?»
Fa sorridere, sentir sentenziare un candidato alla nascita con quella maestria, notare che discorre dei cirripedi di Darwin e del bosone di Higgs come potrebbe fare di un attacco di singhiozzo.
E certamente, trattandosi di un evidente divertissement letterario, avrà goduto anche l’autore di quest’esperimento di ventriloquia ardua.
Però spesso il gioco si fa troppo spinto e la saccenteria amniotica diventa quasi fastidiosa in alcuni episodi, soprattutto quando il feto, tutto zuppo di domani, si erge a futurologo (purtroppo avvedutamente) neocatastrofista adducendo a pretesto un sogno profetico: «Ora che il governo russo è il braccio politico della criminalità organizzata, un’altra guerra in Europa ha smesso di risultare inconcepibile. Ora che si rispolverano le divisioni corazzate lungo il confine meridionale della Lituania e il bassopiano germanico. Lo stesso intruglio che infiamma le frange barbariche dell’Islam».
Insomma, questo prodigio cos’altro ha da imparare, se anzitempo conosce tutto? Vale la pena di vivere quando prima ancora di avere un giorno si dimostrano già settantaquattro anni e cinque lauree? Bisogna sperare che abbia ragione Platone, che una volta affacciati ci si dimentichi ogni traccia, che il mondo delle Idee ci consegni all’oblio, per concederci lo scopo di ri-cominciare.
Senz’altro la trama è incalzante e si lascia scolare in pochissime ore. Senz’altro Nel guscio rimane un romanzo intelligente, un punto di vista indubbiamente originale pervaso da un’atmosfera di ordito shakespeariano. Un’occasione per dare sfoggio di un vocabolario fuori dal comune (confesso di avere ignorato prima di McEwan cosa significassero «zangola» e «nictalope»), restituito dalla traduttrice con immane bravura. Ma forse da un soggetto così primordiale sarebbe stato più attraente lasciar sgorgare un approccio espressivo diverso, pre-conoscitivo e non contaminato da tanta erudizione, perché il contrasto, cercato così insistentemente, alla fine fa sbuffare.
Perciò Nel guscio, magistralmente scritto, adultamente avvelenato, non riesce a convincere del tutto. Resta una prova di abilità, brillantemente superata. Ma per la gioia di un romanzo che graffi, con McEwan l’appuntamento è rimandato.
(Ian McEwan, Nel guscio, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2017, pp. 184, euro 18)
LA CRITICA
McEwan torna in scena divertendosi in una geniale esibizione letteraria. Grande prova di scrittura, ma a farne le spese alla fine è la forza del romanzo.
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