“La ricetta del dottor Wasser” di Lars Gustafsson
Il tema nodale dell’identità
di Cristiana Saporito / 5 giugno 2017
Sembra essere l’imperativo degli ultimi anni, queste fette già scomposte di millennio. Trovare la ricetta. Dimagrire, innamorare, coltivare. Ammobiliarsi l’esistenza con successo. Trasmigrare da se stessi e riprogettarsi al meglio. O almeno escogitare la favola che convinca quasi tutti di esserci riusciti. La ricetta del dottor Wasser (Iperborea, 2017) di Lars Gustafsson, pubblicato poco prima della sua scomparsa, ci offre una brillante materia ispirativa.
Kurth Wolfgang Wasser, per sua stessa ottuagenaria ammissione, è un vincente. Medico tedesco in pensione, acquartierato nel velluto della sua vita levigata, fatta di concorsi a premi (ovviamente aggiudicati) e sciami di memorie. Dalla finestra rimira gli altri affannarsi alla fermata, perché forse aspettano qualcuno che li aspetti. Rimira gli altri, lui che ora non è atteso. E rammenta, in una continua ventata di episodi, ciò che è stato delle sue stazioni, dei suoi treni e dei suoi incontri. Può permetterselo, adesso che ha deposto le corse ai piedi del letto e impiega il suo tempo a scappottare cassetti. Peccato che in quello centrale sgambetti un dettaglio imprescindibile.
Peccato che Kurth Wasser non sia Kurth Wasser. Anzi, non è affatto un peccato. Il vero peccato sarebbe sopprimere questo degno “E invece”. Perché quell’etichetta, all’albeggiare dei suoi giorni, non esisteva incollata alla sua faccia.
Il nostro eroe aveva un altro destino inciso nel sangue. Il nostro eroe non è medico e neanche tedesco. Quanto meno non nelle premesse. Si chiamava, molto svedesemente, Kent Anderson. Per il semplice inalienabile fatto di essere svedese. Nato e fiorito nel regno di Västmanland, tra dicasteri di poderi e casolari, figlio di un uomo concreto e presto immolato alle fatiche d’officina. Nessuno spera qualcosa da lui, da quella bacca sgusciata dai «sobborghi del bosco», se non il copione meccanico di un campagnolo collaudato. Eppure Kent sa di essere altro, di meritare altri luoghi. Di dover fuoriuscire dal suo acquaio selvatico. E l’occasione gliela porge una curva, quella che non ha fallito; e un burrone, quello in cui non è piombato. Kent trova un corpo sprofondato, appartenete a un dottore tedesco che non respira più, con ancora i documenti addosso. E, in quel bivio piovuto d’incanto, Kent decide di virare, di abbandonare il suo sentiero come un giaccone svilito.
Kent all’improvviso si eclissa dalla scena. Kent si fa Kurth, addomestica il suo accento, accede grazie e quelle carte a un mondo di studi quasi impensabile. Quella vita acquisita gli calza a meraviglia. Il nuovo Kurth è un medico specializzato in disturbi del sonno. Un uomo che dopo aver scelto l’azzardo lo incarna fino in fondo. Come il migliore degli attori, si ritrova liquefatto nel suo ruolo, sciolto, indistinguibile.
Premiato dagli eventi con un’esistenza totalmente imprevista e per ciascuno dei suoi spettatori perfettamente credibile. Kent/Kurth, il truffatore che nessuno ha controllato, assurge a controllore. Da dirigente sanitario verifica e smaschera le condotte altrui. Perché sa come si gioca. Perché conosce la ricetta. E il romanzo, quello della sua storia sciorinata a ritroso per folate di flashback, ne consacra il trionfo.
Certo, qualcosa di normale è scivolato via. Come egli stesso ammette: «Delle stranezze della mia vita fa parte la bizzarria di essermi perso per ben due volte il mio funerale. Una battuta che riservo unicamente a scopo privato. Kent scomparve. Si può dire forse che morì». E lo stesso è stato per quel giovane medico. Così, al nuovo Wasser resta addosso un trastullo spinoso, «il rimpianto di un buio che sarebbe potuto essere», di quel ragazzo selvatico accantonato appena prima della curva.
Ma il carnevale dei suoi amori intermittenti (gli altri d’altronde sono solo comparse), i riconoscimenti di una carriera illuminata sanno quasi stemperare la solitudine piallata delle sue ultime giornate. Difficile con Gustafsson non pensare a Adriano Meis, seconda nascita del defunto Mattia Pascal. Ai nomi che muoiono prima di chi li porta. Che spalancano tempeste e nuove cose. Come accade alla protagonista di Geometrie di un panorama sconosciuto di Vendela Vida. O a uno dei sette profughi di Questi sono i nomi di Tommy Wieringa, a cui viene assegnato un altro nome per scampare alla rovina. In quel suono di battesimo c’è molto più di una parola. C’è condensa di futuro, incastri e cromosomi. C’è la chiamata a recitarsi i giorni. Perciò grattare via quella crosta significa rischiare, uccidere la parte, tuffarsi nel fosso dove invecchia un cadavere e riattivargli il fiato. A costo massimo.
E Gustafsson scoperchia un tema così nodale come l’identità con lo spasso supremo di chi gioca con estrema serietà. Mantenendo sempre un linguaggio pulito, puntuale, di estremo nitore. Ironico, essenziale, senza avanzi di retorica.
Sarà questa La ricetta del dottor Wasser, nuovo Prometeo che rifiuta la sua sorte? Tentare il tutto per tutto. Sfidare il caso come un rebus. Perché anche la realtà, a volte più della letteratura, è una terra del possibile.
(Lars Gustafsson, La ricetta del dottor Wasser, trad. di Carmen Cima Giorgetti, Iperborea, 2017, pp. 188, euro 16)
LA CRITICA
L’ultimo romanzo di Gustafsson si presenta come il testamento di un grande giocatore. L’autore costruisce un personaggio ribelle e vincente, che ridisegna la sua identità con arguzia e leggerezza. Da vero filosofo che si diletta con «il giocattolo della letteratura».
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