Nella giungla post-esotica
di Antoine Volodine

A proposito di “Gli animali che amiamo”

di / 24 gennaio 2018

Copertina di Gli animali che amiamo di Antoine Volodine

Gli animali amati e sognati da Antoine Volodine sono quelli che si incontrano al limitare della storia, quando ormai pare sia calato il sipario sull’umana dominazione; sono coloro che mantengono in essere un mondo che si rigenera e langue sulle rovine del post-umano, in un apparente inversione di rotta del presupposto progressista. Di recente pubblicazione in Italia (ottobre 2017), Gli animali che amiamo è uscito per Seuil nel 2006 e si inserisce nel catalogo di 66thand2nd edizioni come ideale prosecuzione della precedente pubblicazione, Il post-esotismo in dieci lezioni, undicesima lezione (febbraio 2017):

«Con il suo insistere sull’aspetto tra l’umano e l’ittico, dei protagonisti, il testo s’apparenta a un’invenzione xenostorica, con in più qualcosa che potrebbe far pensare a una farsa di argomento animalier; anche se, in realtà, alla base di queste sequenze v’è l’espressione di un grande smarrimento piuttosto che un tono prettamente favolistico».

Il post-esotismo di Antonie Volodine in Gli animali che amiamo si declina in allegoria etologica: vi è una traslitterazione della dialettica rivoluzionaria dall’uomo all’animale. La consapevolezza e la rivendicazione politica appartengono qui a un orizzonte differente: non più i ribelli detenuti e martiri che innalzano il loro canto di guerra sulle macerie del turbocapitalismo; i protagonisti di questa raccolta sono animali, appartenenti al mondo animale poco meno dell’uomo, o dell’ombra che dell’umano resta. Sono un elefante, un granchio, delle sirene, gli eredi designati alla supremazia, superstiti assoluti di una surrealtà fatta di lotte arcane e primordiali.

Nasce così il personalissimo bestiario fantapocalittico dell’autore che, unico e molteplice, con i nomi di Lutz Bassmann e Manuela Draeger, si è fatto portavoce del post-esotismo, corrente letteraria, ma soprattutto baluardo di un’idea totalizzante di letteratura. Nel post-esotismo la letteratura è vita, morte e resurrezione: l’oralità e la coralità sono le colonne portanti di una narrazione che si proclama testamento collettivo e globale, una narrazione in cui il lettore viene reso protagonista centrale in quanto testimone e complice della divulgazione del messaggio. Il post-esotismo è una letteratura della responsabilità del lettore di fronte alla pagina: attraverso la narrazione sopravvive all’incubo l’autore, e solo attraverso la narrazione il lettore mantiene vivo il messaggio, con il quale diviene tutt’uno. Le voci plurali che compongono l’universo post-esotico sono quelle di chi c’era o ci sarà, in un passato che è presente e futuro e di nuovo passato, trascendendo e rendendo superflua qualsiasi scansione temporale: ciò che fa Volodine con il post-esotismo è di operare un superamento delle dinamiche erranti dell’universo fantascientifico, ponendo l’oltre come unico territorio cronotopico reale. Non vi sono barriere nel post-esotismo perché autore, personaggi e lettore sono i medesimi nella realtà del testo, fittizia o meno che sia, poiché accomunati tutti da un impegno concreto: la prosecuzione della lotta e la preservazione della memoria.

La narrazione trova, in questo testo, vita e linfa nello sguardo di un’animalità fantastica e terrena: spazzato l’antropocentrismo, restano loro, gli animali, i prosecutori ideali e fattuali delle sovversioni politiche ed esistenziali. La rivoluzione si immerge tra la fitta vegetazione della giungla e negli abissi ultramarini, e mette in scena l’infinita sequela di lotte ed eroismi dei popoli oppressi, ne celebra le gesta, infondendo ai protagonisti della narrazione un senso epico che sconfina nel mito, come nei testi che compongono la Shaggå delle sette regine sirene:

«Alla superficie del fango, la sua sorte ne aveva disgustato più di uno; gli scontenti si avvolgevano il ventre di dinamite per volatilizzarsi poi in questa o in quella sala del Palazzo. Molti nobili figli perirono nella campagna e l’élite fu decimata: la nostra regina, purtuttavia, non ricomparve».

L’animalità che popola il mondo desolato si pone vittoriosa nell’interstizio tra l’uomo e il bestiale: l’animale si fa dunque epigono della rivolta esistenziale, detentore unico di una memoria storica che trasmette mosso da un imperativo morale. La narrazione come esigenza etico-politica si conferma anche in quest’opera il fulcro programmatico della poetica di Volodine; il campo d’azione letterario resta il medesimo di Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, di Angeli minori, di Scrittori, e di Terminus radioso, ma muta lo scenario in cui si insedia: il racconto acquisisce nel regno animale un senso del tragico minuzioso e cangiante, sfumato e al contempo farsesco. Il racconto delle prodezze del sovrano Balbuziar, soggetto ai corsi e ricorsi marini, colloca il dramma sotto il livello del mare, in un contesto da cui non è avulsa la deriva violenta della lotta per il potere.

L’elemento favolistico, apparentemente centrale, è usato come cassa di risonanza, quale inedito supporto, delle categorie ideologiche del post-esotismo; esso è funzionale alla proclamazione diffusa e interspecista del manifesto letterario che compone l’opera di Volodine nella sua prospettiva di totalità: vi sottende un’idea di letteratura d’assalto, militante, che si propone come l’ultimo baluardo di una cultura che si fa urlo di fronte all’aberrante, che marcia imperitura sulle macerie dell’esistente, poiché «il post-esotismo è una letteratura che proviene dall’altrove e incede verso l’altrove».

Il cammino di Wong l’elefante appare partecipare della stessa sorte, incarnando in pieno il senso stesso del post-esotismo, col suo progredire costante e indifferente, diretto verso un logos inesplorato e misterioso; con Wong è la letteratura a inoltrarsi nella foresta:

«Quale che sia la direzione verso cui ci si inoltra, che essa conduca fuori dei muri o, all’inverso, all’interno della voce poetica stessa, ci si scontra con un’assenza di luminosità, il sogno non è altro che subsogno, la barca dell’evasione è inaccessibile e circondata dal fango. Modificare il passato grazie a interventi dell’immaginario non dà accesso a nient’altro che un brancolio senza costrutto; l’avvenire è scomparso, il presente è ormai senza spessore. La parola altro non è che un vago scarto che accompagna un sogno grigio. La parola è morta e non promette di rinascere».

Le cinque intrarcane e le due Shaggås che compongono la raccolta sono pervase da un linguaggio che potrebbe sembrare a prima vista sarcastico: vi è invece una nota ironica che volge a tratti nel tragicomico, nella beffa esplicita dell’eloquio dei potenti, nella rappresentazione linguisticamente pomposa delle microbiche grandiosità. La lingua con cui ci narrano le loro storie Wong e Balbuziar è la lingua della recita, della declamazione, della divulgazione orale: Antoine Volodine fa sorgere e insorgere le sue dichiarazioni d’intenti dai meandri e dagli abissi. Nella ribellione trova l’incanto, e il fantastico si pone come complemento necessario alle esigenze filosofiche della letteratura post-esotica, con la sua carica d’insolente trasmutazione del reale e dell’onirico in un discorso politico letterario complesso e coerente con la riflessione sull’estetica del cataclisma diffuso.

«Le braci delle rivoluzioni hanno smesso di rosseggiare, una sterile fanghiglia ricopre la terra, nessuno ascolta, la barbarie ha trionfato sin nei recessi più profondi della mente: questo è ciò che le sette sequenze della Shaggå immaginano regni all’esterno dei muri».

 

(Antoine Volodine, Gli animali che amiamo, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2017, pp. 177, euro 15)
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LA CRITICA

Volodine opera una sublimazione magistrale delle rivolte di un’animalità che popola la prolifica desolazione post-esotica, dando vita a un bestiario raffinato.

VOTO

8/10

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