La poesia è la lingua di chi fugge
“Manuale d’esilio” di Velibor Čolić
di Cristiana Saporito / 16 febbraio 2018
Secondo Winston Churchill, rimasticato di recente da Claudio Magris in un articolo su Ismail Kadarè, «i Balcani producono più storia di quanto possano digerire». Un sistema scollato dal suo assorbimento, che forgia e non sa smaltire. Prometeo ingrassato davanti allo specchio, dove gli eventi si addensano intorno all’addome, come un’assenza, come un segreto di sfumata salvezza. È questa la pancia in cui nasce Manuale d’esilio di Velibor Čolić (Bompiani, 2017).
Una terra piccola e contrastata, in cui la guerra ha sfoltito le vite, innescato vendette, armato popoli e religioni da bravi destini votati alla lotta. C’è stato un tempo in cui il Medio Oriente svettava oltre l’Adriatico. Sarajevo, Belgrado, Zagabria ridotte alle briciole; una pentola esplosa nei suoi confini e frammenti feroci sbarcati per anni su queste sponde.
L’autore è un cronista radiofonico e uno scrittore di successo quando la sua patria decide di impazzire. Si arruola suo malgrado nell’esercito croato-bosniaco e immola i suoi occhi all’orrore; le stragi intestine, la pulizia etnica, villaggi e città verniciati di sangue. Vede troppo, sente più di quanto veda, incassa lezioni indelebili: «Sono un soldato. So distinguere l’odore di un cadavere da qualunque altro, so che la peggior ferita è la ferita al ventre e che tutti i morti hanno il viso calmo e cereo di chi se ne va. (…) Tremo in continuazione, vomito di nascosto, scrivo epitaffi per il mio Paese e porto una bandiera bosniaca nella manica della camicia». Nel 1992 capisce che sopravvivere vuol dire disertare. La Francia diventa il suo approdo, il primo scenario del suo ruolo da esule: «Sono un cavalleggero, un viaggiatore col viso segnato da un freddo metafisico, l’ultimo grado della solitudine, della stanchezza e della tristezza».
Porta addosso ogni cosa, vestiti come fossero angosce e spettri al posto di giacche. È il suo armadio ambulante, non ha casa né bagagli se non quelli che riesce a indossare, sovrapponendo stoffe come strati di memoria. Per di più, quella lingua non gli appartiene. Le uniche parole francesi che possiede sono Jean, Paul e Sartre. A Rennes si muove da alieno, da fantasma addobbato. Non può essere pulito, non può essere adeguato, si spiaggia in qualche bar e trova nell’alcol la giusta narcosi, significati comprensibili, la sola possente sorsata di tregua. «A poco a poco mi rendo conto che sono il rifugiato, l’uomo senza documenti e senza volto, senza presente e senza avvenire. L’uomo dal passato pesante e dal corpo spezzato, il fiore del male, inconsistente e disperso come polline. Non ho più nome, non sono più grande e piccolo, non sono più figlio o fratello. Sono un cane fradicio d’oblio in una lunga notte senza alba…»
Non sono previste molte forme di conforto, tranne forse che nel dolore altrui. Annusare, rosicchiare poche fette di disperazione in chi incontra nel centro di accoglienza o nel suo continuo peregrinare. In chi come lui è scacciato dagli sguardi e resiste da insetto. Clochard, ladruncoli, ex soldati, nuove ombre aggrappate al bicchiere: «Poi ognuno se la vede con sua sbronza. I russi urlano nei corridoi e io piango in camera con la faccia affondata nel cuscino».
Ma Čolić non è solo un reietto, un oggetto scomodo e non catalogabile. È uno scrittore e non potendo leggere, si sfama scrivendo. Il suo Manuale d’esilio racchiude e protegge la sua condizione. La deride, la intacca e la nutre. «Il 13 maggio 1993 il mio diario di soldato diventa un libro: I bosniaci (uomini, città, filo spinato)». Non gli resta che questo, ciò che sa fare per non appassire. La parola-esorcismo, per sfuggire dalla marea dell’incompreso, che scroscia intorno e poi anche dentro.
Čolić eterno estraneo, come il Meursault di Camus, come Agota Kristof, espatriata tra lingue nemiche nel suo meraviglioso autobiografico L’analfabeta. Lontani, sospesi, pendenti in una bolla, come Hans Sahl, che dell’esilio ha fatto dimora, racconto e missione poetica in Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo.
Manuale d’esilio di Velibor Čolić è un diario cocente e autoironico, prontuario ambizioso e semiserio per chi orbita ai margini. Ma soprattutto, rappresenta un’occasione. La voce letteraria per l’anonima massa di esseri in fuga, sputati dai propri Paesi e piombati nel baratro. Del viaggio infinito, del mare che inghiotte, del corpo innominato, che anche quando non muore staziona nel limbo. Finché non implode. O finché non deflagra.
Tutti qui, a ingombrarci le strade ma non la vera domanda. Perché loro e non io?
Qui, in Manuale d’esilio, ogni pagina ha il peso della bellezza che offre, da frutto ispido e necessario. Interroga e acceca, senza ovvietà. Tutto da leggere, tutto da bere. «Noi un Nulla fummo, siamo, resteremo fiorendo, la rosa del Nulla, la rosa di Nessuno».
(Velibor Čolić, Manuale d’esilio, Bompiani, 2017, 280 pp, € 16.00)
LA CRITICA
Velibor Čolić propone un romanzo densissimo, fatto di pelle scheggiata, ironia e umanità disarmante. La sua vita di rifugiato in altri confini con l’urgenza di romperli.
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