Il passaggio all’età adulta attraverso la vulnerabiltà dell’amore
Intervista a Giorgio Biferali, autore di “L’amore a vent’anni”
di Antonella De Biasi / 19 marzo 2018
Dopo il saggio Giorgio Manganelli. Amore controfigura del nulla (Artemide, 2014), A Roma con Nanni Moretti (Lozzi, 2015) scritto con Paolo Di Paolo e Lo scoiattolo della penna (La nuova frontiera junior, 2017) in cui l’autore ci prende per mano e ci racconta le prime passioni di Italo Calvino – che segneranno tutto ciò che Calvino scriverà – Giorgio Biferali, ci consegna il suo primo romanzo ambientato in una Roma luminosa e familiare, in cui si snoda una storia d’amore e di disincanto. Scandita dalle temperature “social” del nostro tempo: telefonini, WhatsApp, Facebook, Twitter, Tinder, Instagram.
L’Amore a vent’anni è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, basato su una storia semplice, ma ricca di molteplici dettagli. Sono loro a “fare la differenza”, a conferire alla narrazione il ritmo del racconto. Sono i dettagli, i frammenti in cui ciascun lettore può ritrovarsi e riconoscersi: affidarsi a loro è stata quindi una scelta narrativa precisa?
È stata una scelta dettata da una parte fondamentale di me: sono sempre stato attento alle sfumature, ai dettagli appunto. Quelle piccole cose che catturano la mia attenzione e che a volte cambiano il modo di leggere un accadimento, di rileggerlo anche. Un colore, il modo di portare una borsa o di camminare, uno sguardo o una macchia sul vestito: sono sempre stato un curioso osservatore. Avevo uno storyboard certamente, ma, succede che quello si modifica immancabilmente andando avanti nella narrazione, addentrandoti in essa. E i dettagli sono diventati una specie di collante per quell’altalena che passa dal razionale all’irrazionale del romanzo.
Il protagonista del romanzo, Giulio, è un ragazzo che deve diventare adulto e per il quale il mondo dell’infanzia è ancora molto presente e predominante. Per farlo deve attraversare delle esperienze fondamentali, potenti e dolorose allo stesso tempo e prendere le “distanze” dal mondo familiare. Si potrebbe quasi definirlo un romanzo di formazione?
È un termine “classico” ma potremmo dire di sì: il romanzo di formazione si incentra sul passaggio e in questa storia si passa appunto da una dimensione della vita ad un’altra, attraversando delle fasi e dei flashback che guidano il protagonista a emanciparsi soprattutto dall’infanzia. Ma non per rinnegarla, piuttosto per conservarla, custodirla. La memoria serve a tradurre e a “digerire” certi processi, certe dinamiche. Per Giulio il presente esiste e non è più solo legato a quel mondo lì, quello degli anni da bambino, ma rappresenta una sorta di mappa per orientarsi nel momento attuale e quello di un probabile futuro. I piani temporali della nostra vita si intrecciano in un divenire continuo, formandoci appunto.
L’amore a vent’anni è un titolo già sentito che spalanca le porte alla memoria cinematografica collettiva: un film di François Truffaut sull’amore post-adolescenziale, girato negli anni ’60…
Il titolo è chiaramente un omaggio al celebre film di Truffaut: il cui protagonista Antoine Doinel, interpretato da Jean-Pierre Léaud, è prima di tutto un sognatore. Il protagonista si “ispira” alla figura di Doinel in quanto un uomo che muove la sua vita solo con i sentimenti. Ed è questo che aleggia in tutta la narrazione nel mio L’amore a vent’anni: un sentimento diffuso che non è solo quello che lega due ventenni innamorati ma è anche quello delle relazioni familiari, dei legami di amicizia, degli intrecci con i luoghi in cui si vive e si cresce.
Spiccano i riferimenti al cinema: oltre a quello di Truffaut e al suo Doinel (che abbiamo detto quasi domina la trama del romanzo) compaiono i registi David Lynch e Woody Allen. Pellicole come Lost in Translation, Léon, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Broken Flowers. E quelli alla musica: dal cantautorato italiano ai grandi gruppi come i Beatles, i Radiohead, gli U2, ai classici come Ella Fitzgerald e Louis Armstrong. Gruppi nuovi ed emergenti come gli Ex-Otago, Stromae. Sono i gusti e le nostre preferenze cinematografiche, musicali e artistiche a disegnare la “mappa” del nostro modo di stare al mondo?
In considerevole parte è esattamente così: non possiamo non essere quello che ascoltiamo, quello che vediamo, quello che più ci cattura e ci seduce. A volte faccio confusione tra ciò che vedo realmente io e ciò che ho visto in un film, un libro, un concerto o una fotografia. È un meccanismo di identificazione che mi piace, mi conforta e mi fa sentire parte di qualcosa. Nella letteratura, nel cinema, nella musica, nell’arte: ogni giorno cerco dei riferimenti che diventano per me stimoli importanti. Tutto quindi diviene parte di te, si sedimenta in te, delineandoti.
La nostra formazione quindi e i nostri ricordi, le frasi che sottolineiamo nei libri sono quello che ci differenzia dagli altri e che in un certo qual modo “ci salva” da una sempre più “invadente” omologazione?
Sono quei lampi che ci sostengono e senza i quali certamente avremmo un’identità diversa: e fa parte del gioco distinguersi e poi creare delle connessioni, mettere in circolo delle empatie. Il tutto ti prepara a creare sempre altri mondi, come ho cercato di raccontare nel mio libro.
Il romanzo inizia con un imprinting nostalgico, quasi poetico. E subito dopo però si apre a uno scenario che stimola la curiosità: «Mi mancherà perdonarti». Qui hai voluto accendere la miccia nella mente del lettore: a chi si rivolge la voce narrante? Cosa deve perdonare?
L’incipit è stato scritto pensando che il lettore arrivato alla fine del libro, corra a rileggerselo. Ho cercato di intingerlo di poesia: la voce narrante è quella di Giulio che si rivolge a suo padre in una specie di “addio” a una parte della sua vita, che non tornerà più ma che è comunque viva e presente, ma che il lettore non può ancora mettere a fuoco. Le storie sono come le fotografie che prendono forma e contorni all’interno della camera oscura: questo romanzo prende forma via via che il lettore lo “sviluppa”, passaggio dopo passaggio.
«Mi mancherà l’infanzia, però, quando ogni cosa era ciò che sembrava» dice Giulio all’inizio del romanzo. Il protagonista che racconta sempre in prima persona la storia, ripassa più volte, la sua vita “come era prima”. È sempre complicato crescere e rinunciare all’aura protettiva dell’infanzia: ma lo è di più per le generazioni attuali?
Lo è di più perché siamo in un momento storico difficile, instabile. Si volge lo sguardo indietro perché anche se tutto è in forte fermento e corre veloce ci sono molti aspetti che non sono soddisfacenti, creativi. Ci si sente disorientati e l’unico ente che ti permette di sopravvivere resta la famiglia, quel nido che ti protegge da tutto il resto del mondo fuori. La famiglia anche se cambia, anche se ha diverse forme: ma resta il baluardo, il legame stretto tra il mondo che ti immaginavi e poi com’è che sono andate le cose. Io ho un filtro privilegiato: ho avuto un’infanzia felice e i miei genitori sono ancora uniti, quindi, è stato ancora più naturale per me partire da lì.
Quindi ripartire dal nucleo familiare, rivalutarlo e ripercorrerne il valore è diventato “figo”?
È una specie di anticonformismo al contrario: una sottile vocazione che ho voluto raccontare nel mio libro. I ricordi di Giulio, dei sapori e dei colori, del luna park, degli oggetti di tutti i giorni, dei cartoni animati, dei rituali familiari, ci portano a rievocare quelli che ognuno possiede. E ci rimanda a una scintilla: la famiglia è non solo la base ma anche la guida.
Quindi da che tipo di ispirazione nasce L’amore a vent’anni? Cosa volevi quindi fotografare, raccontare?
Dopo aver attraversato varie forme narrative mi sono avvicinato con questo primo romanzo a quello che era il mio destino, il mio modo di raccontare. L’amore è un modo di guardare le cose, un modo puro, mai cinico, autentico. Volevo trasmettere il senso di autenticità che i sentimenti trasmettono, senza mai voler esprimere un giudizio su ciascun personaggio che abita il mio libro. Non esistono “colpevoli” in L’amore a vent’anni: c’è una propulsiva spontaneità, c’è la vocazione di ciascuno di noi ad amare ed essere amato.
Silvia è il grande amore di Giulio, il protagonista del romanzo. Una ragazza con la quale lui attraversa diverse fasi: dall’appartenenza alla gelosia, dalla condivisione di interessi artistici e culturali, al mondo dell’università con i suoi primi esami da sostenere. Le prime prove di vita vera. È l’amore post adolescenziale, con cui si sperimenta la vita , con le sue asperità e le sue disillusioni. Ma restituisce fortemente al lettore un suggerimento: l’amore profondo è sempre ambivalente?
Credo di sì. C’è un tratto del romanzo in cui Giulio e Silvia prendono la metro che ovviamente procede sotto terra ma che per pochi secondi emerge, restituendo un pezzo di Roma agli occhi dei viaggiatori. Dura pochi secondi prima di inabissarsi nel sottosuolo, ma quel lampo ci racconta che il sentimento non è mai stabile. Le nostre emozioni e i nostri passaggi profondi sono dominati da continui alti e bassi, tracciabili come su un sismografo. Il modo di amarsi di Giulio e Silvia segue questi sbalzi e il cielo umorale di Roma, la loro città. Solo il compromesso conferisce la capacità di vivere l’ambivalenza del sentimento, appunto la sua instabilità. Se non si è disposti a questo si commettono grandi errori o si perde tutto.
Nel libro ricorrono diverse volte i “codici” del nostro tempo: Twitter, WhatsApp, schermi dei telefonini che si illuminano, app come Tinder con cui cercarsi per azzerare la solitudine, altre per riconoscere la canzone che passa alla radio. L’uso di questi codici è ormai parte della nostra quotidianità e quindi entra inevitabilmente nella letteratura: ma con quale effetto?
Chiunque voglia raccontare una storia e ambientarla nel presente non può non utilizzare i nuovi mezzi che usiamo per comunicare. Raccontare il nostro tempo e le relazioni attuali non può non contemplare i passaggi che si sono compiuti sociologicamente e nelle abitudini quotidiane. Ho voluto arricchire il mio romanzo di questi frammenti che spiegano come adesso sia diventato immediato comunicare e “tentacolizzare” i rapporti e contemporaneamente sia tutto più alienante. Pensiamo a Blitz di Trueba: un romanzo che parte da un messaggio inviato per sbaglio e che si snoda in una storia accattivante. Ecco: uno scrittore deve essere testimone del proprio tempo, con i suoi vantaggi e le sue contraddizioni.
Roma è sempre lo sfondo dell’intera vicenda, ma anche dei libri precedenti. Le sue vie, i suoi musei, i monumenti, i luoghi più visitati e quelli più nascosti. L’idea di sceglierla come “set” non è solo perché è la città dove vivi, ma perché rappresenta un posto in cui la letteratura e la nuova comunicazione trovano terreno fertile?
Roma è la scenografia della storia d’amore tra i protagonisti: è mutevole come la loro relazione, fa da sfondo al loro perdersi e ritrovarsi. I luoghi, che diventano parte di noi, sono una specie di geografia sacrale: non sono solo piazze, vie, parchi, librerie, monumenti. Credo che Roma sia una città ancora piena di slanci culturali: e conservi una bellezza creativa nonostante le immense difficoltà che attraversa e che “schiacciano” la sua identità eterna, magnifica.
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