Ma gli ologrammi comprano sogni su eBay?

“L’ultimo angolo di mondo finito” di Giovanni Agnoloni

di / 29 marzo 2018

copertina di “L’ultimo angolo di mondo finito”

È rimasto qualcosa d’indicibile? Sì, insomma, nell’acquario isterizzato di chiacchiere e versi che chiamiamo ancora comunicazione, c’è un principio, un’affermazione realmente in grado di scandalizzare l’uditorio? Ecco, io credo di averla trovata. Sei lì, adagiata nel tuo pollaio di battute, tra le mamme del nido o nuovi colleghi e non appena qualcuno cerca di cooptarti in un ennesimo gruppo di chat, tu, come faresti con chi ti offrisse un sigaro, replichi: «No, grazie, non ho lo smartphone».
In quel preciso momento qualcosa cambia. Non come se sbocciassero pustole infette agli spigoli degli occhi, o fossi la smentita vivente che è stato debellato il vaiolo, ma piuttosto come si scruta chi all’improvviso dismette la tua lingua e comincia a sommergerti le orecchie con un sermone in creolo tropicale. Condito da qualche tic.

Per questo l’argomento cardine dell’ultimo romanzo di Giovanni Agnoloni non poteva risultarmi indifferente. Titolo vagamente distopico: L’ultimo angolo di mondo finito (Galaad Edizioni,  2017).

Trama complessa, articolata come il disegno che la sorregge. In un futuro quasi prendibile, Anno Domini 2029, il Leviatano Internet si sbriciola di colpo. Niente più arene virtuali, nessun collegamento, niente più voliere di bassi istinti e altissime menzogne. Niente più clic per scegliersi la vita. L’effetto? Prevedibilmente devastante, più che altro postatomico.

La scomparsa del solo mondo plausibile causa una pandemia di orfani spiaggiati, scossi, sconnessi. Anime bollite in un circo di cose sconosciute. Dove servono calli e anche ferite.

La reazione non tarda a sbucare. In America la rete viene testardamente ricostituita attraverso l’utilizzo di droni; in Europa invece il Sistema (non a caso indicato maiuscolo e divino come si fa con la camorra) opta per una rinascita più subdola, immettendo tra gli umani delle riproduzioni preferibili, dei cloni che indossino la migliore versione di ciascuno. Ideali per ricompensare creature sole con un dorato inguaribile isolamento.
«Eccoli. Avanzano. Vivi che sono come morti. Persone senza coscienza, perché l’hanno ceduta nelle mani di copie di se stessi prive di sostanza: gli ologrammi, i finti maestri, profeti di una verità tascabile, residui di un mondo di illusioni facili, di pretese soluzioni a portata di mano».

Ovviamente non tutti condividono sgomento e scontento. Ci sono alcuni, minoritari e nascosti come i primi disaccordi, un gruppo di Anonimi impegnati a opporsi, che scorgono in questa crisi un’occasione di rivincita. Si sparpagliano, come semi d’azzardo. Emanuela in Bosnia, Aurelio in Portogallo, i fratelli Ahmed e Amina in Puglia. Tutti in cerca di un segnale. Una fonte di energia sottile per ripiantare un altro tempo.

Per coniugare tecnologia e natura. La loro guida, Joseph Hermann, si è immolato al suo progetto giocando fino in fondo, consegnando se stesso, morendo per la causa. E restava agli eredi la sola carnale missione: sopravvivere. A contrappuntare le loro vicende altri due personaggi in viaggio: Kristine Klemens, scrittrice belga misteriosamente in fuga coinvolta nel piano degli Anonimi e Kasper Van der Maart, intento a fiutare le sue impronte per capirne i veri obiettivi.

Passaggi continui, di scenari e di punti di vista, che non è sempre semplice seguire. Le città si mescolano come chi le racconta e c’è spesso di bisogno di ricapitolare contenuti e posizioni, a scapito della fluidità d’insieme. Il tutto segnato da una scrittura strutturata, robusta, con frammenti di profondità poetica, soprattutto nelle tracce letterarie attribuite a Kristine Klemens nel suo L’addio.

Ma, ben al di là dell’arcipelago stilistico, L’ultimo angolo di mondo finito snoda un tema di attualità straziante. La stessa che mi marchia come estranea durante i miei outing antidigitali. Il nostro zoo affollato di bolle dove ognuno parla a se stesso fingendo di dialogare con l’eterno assente; cene di coppie che spendono sguardi in picchiata su uno schermo, ignorando quel corpo con cui dividono l’aria.

La fame stizzita di farci spiare, di abitare la curiosità altrui, almeno per un attimo, per conferirci un barlume di senso. Siamo tutti, me compresa che tento di schermirmi, fantasmi schedati, schiavi morbosi di un gradimento labile, automi di cui si conoscono pensieri e paure, al solo scopo di gestirci facilmente e rabbonirci con l’acquisto.
«Gli uomini del Sistema avrebbero raccolto i nostri dati, gusti, desideri. Avrebbero studiato chi eravamo diventati, e soprattutto chi non riuscivamo più ad essere. […] Avrebbero raccolto informazioni genetiche, analizzato l’aspetto, le ambizioni di ognuno, e costruito delle copie perfette, migliorate […] Annullando ogni loro autentica passione. Rendendoli spettri nelle mani di altri spetti. Ombre istruite da ologrammi»

Insomma, siamo davvero vivi? Chi lo è davvero? Philip Dick, Robert Heinlein o James Ballard ci hanno stregato di visioni in tempi non così sospetti.

Ma io ringrazio l’autore per avercelo chiesto proprio adesso. Rispondere poi sarà un’altra storia.

 

(Giovanni Agnoloni, L’ultimo angolo di mondo finito, Galaad Edizioni, 2017, pp. 266, euro 13)

 

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LA CRITICA

L’autore tratteggia un mondo dipendente dalla rete dove la sua provvisoria scomparsa. Genera un esercito di orfani in crisi d’astinenza e una minoranza di preziosi detrattori. Distopia non così fantascientifica di un futuro purtroppo dietro l’angolo.

VOTO

6,5/10

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