Il bivio di Motta
"Vivere o morire", il nuovo lavoro dell'artista toscano
di Luigi Ippoliti / 18 aprile 2018
La fine dei vent’anni era apparso due anni fa come qualcosa di nuovo, ma in cui si riconoscevano certe coordinate. Era facile ritrovarci una spinta che proveniva da un passato più o meno recente e che non attingeva da ciò che funzionava in quel momento. L’idea di indie in Italia era stata stravolta da Calcutta e dai Thegiornalisti, la loro presenza metteva (e mette ancora) in discussione certe categorie indie/mainstream. Al contrario, Motta appariva come una presenza che quantomeno rievocasse un pensiero di rottura con l’appiattimento all’omologazione o al sogno radiofonico, incarnata, senza tornare troppo indietro nel tempo, negli anni ’90 da Afterhours e Marlene Kuntz e che sembrava essersi fermata ai Verdena – e, in tempi più recenti, al primo Vasco Brondi. Vivere o morire, secondo lavoro del cantautore pisano, dà l’impressione di esser figlio della tradizione Agnelli-Godano e di esser riuscito a scavalcare il presente, evitando certi appigli oggi di sicura presa.
La questione è complessa. Si può rischiare di valutare unicamente Motta come differenza a questo specifico presente, riducendolo a semplice alternativo a quello che potenzialmente dovrebbe essere alternativo. Ma se Calcutta e Thegiornalisti hanno seguito un filone che spazia da Battisti a Venditti, risultando qualcosa di più incline a una parodia che a una propria metabolizzazione e rilettura del tutto, è indubbio che Motta segua la pista, che affonda le sue radici nei CCCP, degli Afterhours. E, a differenza dei suoi colleghi di oggi, si ha fin da subito la sensazione di ascoltare qualcuno che, comunque, ha coscienza di sé. Qualcuno che non si accontenti di riproporre ciò che si faceva, esponendolo in maniera macchiettistica, in chiave moderna. Si riconosce la testa di uno che si stacca dalle sue esperienze e tira fuori la propria voce.
È chiaro: per quanto ci sia un certo fermento e girino dei musicisti nuovi, tra i nuovi gruppi o cantautori, è difficile gridare al miracolo (i vari Gazzelle, Giorgio Poi, Colombre o Canova, tralasciando i deliri di Pop X); ci si ritrova a inquadrarli come un qualcosa di transitorio, di non nocivo – innocuo nella sua accezione più pura, parlando di rottura con la diffusa omologazione contemporanea -, ma che non possano ambire a qualcosa di più alto. Anche cantautori di livello superiore (indipendente dagli anni di carriera), da Dimartino a Colapesce (con qualche riserva su quest’ultimo), alla fine possono essere inquadrati in certe logiche.
Si può arrivare a Cosmo ma, nonostante lo spaesamento dettato della massiccia impronta techno-elettronica dell’ultimo album, anche lui è immancabilmente sfociato nel coezanesimo. L’unica eccezione è Die di Iosonouncane – si evita di parlare di Baustelle e Brunori Sas, fuori categoria. In questa situazione, dunque, Motta non può non distinguersi per essere altro da ciò che accade.
In quest’ultimo, Riccardo Senigallia non è il produttore, ma certi insegnamenti devono essere rimasti nella testa di Motta. Infatti, Vivere o morire è incartato alla perfezione in stile La descrizione di un attimo sporcato da Manuel Agnelli. Ci sono echi di Vasco Brondi meno prolisso e criptico – “Mi parli di me”, sembra un pezzo de Le luci delle luci della centrale elettrica ridotte all’osso, privo di voli pindarici. Motta, a differenza del cantautore cresciuto a Ferrara, ha una scrittura pesata: frasi secche, poche metafore, poche similitudini. Il mondo, soprattutto quello interiore, è descritto in maniera asciutta, costruito con sensibilità da artigiano.
Più pop del suo predecessore, è più concreto e compatto. La fine dei vent’anni, da parte sua, aveva tre pezzi superiori a tutti (“Del tempo che passa la felicità”, “La fine dei vent’anni”, “Prima o poi ci passerà”) che lo faceva brillare di una luce riconducibile al talento puro. In Vivere o morire il talento è distribuito lungo tutto l’album, rendendolo più fluido e adulto, ma senza quelle impennate che avrebbero reso l’album più significativo (sicuramente notevoli “Ed è quasi come essere felici”, “Quello che siamo diventati” e la già citata “Mi parli di te”).
A Vivere o morire manca probabilmente un quid, una sterzata notevole, qualcosa che gli permetta di fare un salto in avanti importante rispetto al precedente. La fine dei vent’anni è stato negli anni’10 quello che negli anni ‘00 è stato Canzoni per spiagge deturpate. Vivere o morire è l’attesa alla consacrazione.
LA CRITICA
Motta si conferma autore di livello a due anni dall’esordio La fine dei vent’anni. Vivere o morire è un lavoro completo e riuscito, a cui manca qualcosa per superare nettamente il suo predecessore. Con il prossimo, l’artista torcano potrebbe affacciarsi nell’élite della musica italiana.
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