Decongelare il canone
"Tranquility Base Hotel & Casino", il nuovo album degli Arctic Monkeys
di Luigi Ippoliti / 16 maggio 2018
Tranquility Base Hotel & Casino non può non dividere. Per come suona e per essere arrivato dopo cinque lunghi anni da AM. Proprio perché è arrivato dopo cinque anni e suona in questo modo. I fan più ortodossi, rifacendosi a certe categorie bloccate, reazionarie, possono leggere quest’ultimo lavoro degli Arctic Monkeys come un affronto di Alex Turner nei propri confronti e, paradossalmente, a sé stesso: carnefice degli Arctic Monkeys e, per estensione, dell’ultimo grande gruppo di quell’indie rock sviluppatosi agli albori del 2000 per mano degli Strokes, nonostante quell’indie rock, per forza di cose, non vesta più i costumi di oggi.
Quel ragazzo poco più ventenne, che altro non voleva essere – per l’appunto – se non uno degli Strokes, nel 2018 decide di virare completamente rotta. Sta a Los Angel e il manager gli regala uno Stainway Vertegrand. Niente chitarre, niente riff, niente Arctic Monkeys. Niente Arctic Monkeys per quella che è l’idea che gli Artic Monkeys hanno perpetuato da a Whatever People Say I Am, Thst’s What I’m Not a AM.
Allo stesso modo, per i fan meno intransigenti (o, in generale, per un pubblico meno intransigente), Tranquility Base Hotel & Casino è l’emblema per cui, nonostante un gruppo possa essere riconducibile fortemente a un certo genere, caratterizzandolo e essendone caratterizzato, nulla vieti di provare a cercare soluzioni artistiche che non ricalchino necessariamente quelle percorse in passato.
C’è un adagio sotterraneo, diffuso, per cui l’azione stessa di cambiamento sfoci in un’azione di tradimento: non ci sono promesse da mantenere, se non quelle filtrate dalla qualità. Cambiare non è un oltraggio.
È chiaro che questo, comunque, non va a significare che il cambiamento è di per sé è sinonimo di qualità o di bellezza. Il nuovo non è aprioristicamente meglio del vecchio. Bisogna saper cambiare, bisogna avere, sì il coraggio, ma soprattutto la sensibilità e la capacità per farlo.
Trovarsi un album del genere tra le mani, dopo lavori come Hambug o lo stesso AM, spiazza, inizia una riflessione dove è netto un prima e un dopo dei quattro di Sheffield: per quanto AM sia stato un’apertura a un pubblico più vasto (esempio più lampante, “Do I Wanna Know?” ), sempre gli Arctic Monkeys parlavano, sempre degli Arctic Monkeys si parlava.
In Tranquility Base Hotel & Casino c’è molto David Bowie, i Beatles, a tratti certe sfumature vocali alla Bob Dylan (“The Ultracheese”) ma soprattutto, diffuso lungo tutto l’album, un chiaro modo di coniugare gli arrangiamenti dei pezzi a quelli dei Grizzly Bear – palesi i riferimenti a Veckatimest in “One Point Prospective”, “The Word’s First Ever Monster Truck Front Flip”e “Golden Trucks”, che sembra in tutto e per tutto un brano dei Grizzly Bear.
Ciò che gli Arctic Monkeys avevano da dire attraverso l’indie rock, con AM si è esaurito. Dagli inizi, riuscendo sempre a interpretare i propri tempi, fino al 2013, gli Arctic Monkeys sono stati in grado di essere garanti di una generazione musicale e culturale.
Un passaggio verso un’altra interpretazione musicale e narrativa era dunque fondamentale per non ristagnare in una continua riproposizione dello stesso linguaggio, con il rischio più che probabile di iniziare una parabola discendente che li avrebbe portati a invecchiare artisticamente in maniera precoce.
Da “Star Treatment” a “The Ultracheese”, però, l’impressione è che Alex Turner, nonostante abbia intuito di dover stabilire un nuovo anno zero, non sia riuscito a bilanciare un nuovo linguaggio – per gli Arctic Monkeys, non in assoluto – con un prodotto che funzionasse completamente. La strada intrapresa ha le sembianze di quella esatta, ma l’interpretazione e l’attuazione sembrano ancora un po’ acerbe.
Avere tra le mani un lavoro che suona come David Bowie (“Four Out of Five”, sembra uscire da Heroes se fosse stato scritto a Brooklyn nel 2009) che canta a volte nei Beatles, a volte nei Grizzly Bear, il tutto in un atmosfera simil festa lounge bar a tema anni ’50, intuitivamente può affascinare. Ma se avessero voluto stravolgere realmente e incidere nel processo iniziato dagli Strokes e portato avanti da loro, dando una svolta decisiva, gli Arctic Monkeys avrebbero dovuto puntare più in alto e scardinare le regole dell’indie rock; non adagiarsi – certamente con talento – a qualcosa che è stato già chiarito in passato. Questo, al massimo, può essere il risultato di un’improvvisa conversione di Matthew Bellamy che, dopo Black Holes & Revelations, rinsavisce e non scrive The Resistance ma, appunto, Tranquility Base Hotel & Casino.
Tanto sono stati bravi a essere negli anni ’00 l’indie rock, tanto oggi non sono stati capaci di saper spiegare il presente.
Con Tranquility Base Hotel & Casino, non si va avanti, non si va indietro: si congela il presente in un lavoro che ha le fattezze di un’opera di rottura e di apertura verso il futuro, ma che non lo è. Alex Turner e soci sapevano e sanno di dover fare qualcosa di nuovo: purtroppo non sanno ancora in quale modo. Un bel lavoro che rimane sospeso in attesa di essere rivelato.
LA CRITICA
La svolta degli Arctic Monkeys è ottima nelle intenzioni, ma non riesce a incidere come potrebbe. Tranquility Base Hotel & Casino è un buon lavoro a cui manca quell’imponderabile che ha reso Alex Turner e soci una delle punte di diamante della musica mondiale degli anni ’00.
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