Alla ricerca dell’Hemingway romantico da Parigi a Pamplona

di / 8 giugno 2018

C’eravamo prefissi, in questa nostra particolare ricostruzione della storia del romanticismo americano, di procedere attraverso ciascuna transizione storica significativa del Novecento con una serie di articoli monografici, nel rapporto di uno a uno: pure, questa volta saremo costretti a fare un’eccezione e a sostare ancora in quella Parigi degli anni Venti che abbiamo già descritto nel contributo precedente. Qui infatti accanto a F. Scott Fitzgerald si muoveva anche, e con maggiore fede del primo, un altro autore destinato a colpire duramente quella corrente romantica che proprio grazie a Fitzgerald in quegli anni pareva troneggiare indisturbata in America: stiamo parlando di Ernest Hemingway.

Se è vero che, per usare la definizione di Henry Murger nella prefazione a Scene della vita di Bhoème, questa «è esistita in ogni tempo e in ogni luogo» e che sia la provvisoria condizione esistenziale di «chiunque entri nelle arti, senz’altro mezzo di sussistenza che l’arte stessa», allora non faremo fatica a definire il trascorso di Hemingway a Parigi come bhoémien, a prescindere dalla suggestione stessa che la capitale francese potrebbe evocare. Abbiamo già visto, con le parole di Pietro Citati, quanto il cambio della moneta fosse conveniente per tutti quegli americani che in quel periodo si recassero in Francia: ciò vale ancora di più per chi come Hemingway cercava di proporre al mercato editoriale una nuova forma di scrittura. Dal momento cioè che come risposta ottiene il silenzio delle case editrici, in qualche modo diviene necessario mitigare i danni. Lo scrittore quindi si arrabatta con il giornalismo: quella originale scrittura schietta e scevra da ogni lirismo infatti pareva funzionare meglio per la cronaca, che per la narrativa. Ecco quindi che la tecnica (o l’arte della tecnica, per dirla come Murger) diviene per Hemingway strumento di sussistenza, in attesa di giorni migliori.

Ci sono almeno tre stereotipizzazioni con cui la critica ha colpito l’immagine di questo autore, una delle quali nasce proprio durante il suo soggiorno a Parigi: l’idea cioè che Hemingway sia il maggiore rappresentate di quella che è stata definita come generazione perduta. La definizione viene coniata da Gertrude Stein, ma sarebbe meglio dire che viene estesa dalla donna all’ambiente artistico e letterario di allora, perché in realtà era stato il capo-meccanico di una officina a pronunciarsi per primo in quei termini nel rimproverare uno dei suoi operai che non era riuscito a riparare per tempo la macchina di Miss Stein. E a questo proposito, credo che convenga allora dare la parola direttamente a Hemingway, citando per intero un passo da quello strano diario che è Festa mobile:

Il patron gli aveva detto: «Siete tutti una génération perdue».

«Ecco che cosa siete. Ecco che cosa siete tutti quanti» disse Miss Stein. «Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta».

«Davvero?» dissi io.

«Sì» insistette lei. «Non avete rispetto per niente. Vi uccidete a forza di bere…»

«Quel giovane meccanico era ubriaco?» chiesi.

«Certo che no».

«E me mi hai mai visto ubriaco?»

«No. Ma i suoi amici si ubriacano».

«Anch’io mi sono ubriacato» dissi io. «Ma non vengo qui ubriaco».

[…] Pensavo a Miss Stein e a Sherwood Anderson e all’egotismo e alla pigrizia mentale contrapposti alla disciplina e pensavo chi è che chiama chi una generazione perduta?

 

 

L’errore nasce dal fatto che si continua ostinatamente ad accostare la prima produzione di Hemingway all’influenza del salotto di Gertrude Stein. Ma a ribaltare tale impasse critico entra in gioco il ruolo decisivo che F. Scott Fitzgerald ha avuto in questa storia: in Un finale alquanto strano infatti, lo scrittore ci fa intendere il suo allontanamento dalla cerchia di Stein. Così come nel capitolo Un agente del demonio, Hemingway ci dimostra di essere del tutto contrario alle idee di Ezra Pound sul suo Bel Esprit e sulla necessità di finanziare con un sussidio quegli scrittori esordienti che parevano destinati a cambiare le sorti della letteratura mondiale. La verità è che a Parigi Hemingway, così come Fitzgerald, era un isolato: ed è per questo motivo che i due si intesero da subito. Si potrebbe anzi dire che la coppia Scott-Ernest sia la seconda protagonista di Festa mobile, dopo la descrizione del rapporto con la prima moglie Hadley Richardson e il figlio Bumby. I capitoli infatti in cui Fitzgerald compare assieme a Hemingway, oppure solamente citato in una discussione con altre persone, sono numerosissimi. Tuttavia, non è la quantità che qui ci interessa, quanto piuttosto il ruolo decisivo che quella amicizia ebbe nella storia della produzione editoriale di Hemingway. Festa mobile è ricca di situazioni comiche tra i due, come quando la coppia si chiude nel bagno per misurare il pene di Fitzgerald, dopo che Zelda lo aveva redarguito per le dimensioni, o ancora la loro complicità nell’ubriachezza e la tendenza di Scott a non reggere l’alcol come il secondo, tuttavia c’era una qualità che più di ogni altra ognuno riconosceva nell’altro: il duro lavoro, ciò che cioè distanziava Hemingway dalla definizione generazionale di Stein. Si legga a titolo di esempio questo passaggio:

«Scott Fitzgerald ci invitò a pranzo con sua moglie Zelda e la sua bambina nell’appartamento ammobiliato che avevano preso in affitto al numero 14 di rue de Tilsitt. Non ricordo molto dell’appartamento se non che era tetro e soffocante e che non vi era niente che sembrasse appartenere a loro se non i primi libri di Scott rilegati in pelle azzurra con i titoli in oro. Scott ci fece anche vedere un grosso registro con tutti i racconti che aveva pubblicato ordinati per anno con i compensi che aveva ricevuto per ciascuno e anche gli importi ricevuti per ogni cessione dei diritti cinematografici, e le vendite e i diritti d’autore dei suoi libri. Erano tutti accuratamente annotati come su un giornale di bordo e Scott li mostrò a noi due con orgoglio impersonale come se fosse il curatore di un museo. Scott era nervoso e ospitale e ci fece vedere la contabilità dei suoi guadagni come fosse stato il panorama. Non c’era nessun panorama».

Sarà Fitzgerald a raccomandare al suo editore una raccolta di racconti dell’amico: Torrents of Springs, lanciando così a tutti gli effetti Hemingway come scrittore. Eccoci quindi alla seconda stereotipizzazione di cui abbiamo parlato in apertura: l’idea cioè che con Hemingway nasca quel nuovo filone letterario che in America mette fine alla supremazia indiscussa della scrittura romantica, in nome di un approccio esclusivamente realistico. Se questo da un lato è sicuramente vero, perché Fitzgerald e Hemingway sono i giganti di queste due tendenze, è vero anche che la seconda si genera da una filiazione diretta dal romanticismo americano: Hemingway infatti farà completamente suo il metodo Fitzgerald (o potremmo dire il metodo Scribner), cioè la capacità di rendere la scrittura una professione redditizia a tutti gli effetti – e come abbiamo cercato di spiegare nei primi due articoli di questo percorso critico, è il romanticismo che ha il merito di trasformare lo scrittore in un vero e proprio «mestiere».

Ma l’influenza del romanticismo in Hemingway non si esaurisce solo nell’approccio professionale: se con Jack London assistevamo alla «invenzione continua della propria biografia» e con F. Scott Fitzgerald a un esclusivo «romanticismo biografico», sarà Hemingway a mescolare questi due approcci, in favore di una biografia che si costruisce di volta in volta (e realmente) sulla scorta di una ideale prospettiva romantica. Qui il discorso si complica ulteriormente, perché non solo contribuisce a mettere in crisi la nozione stessa di realismo hemingwayano, ma soprattutto in quanto coinvolge anche l’ultima stereotipizzazione di cui lo scrittore fu vittima: l’accusa di machismo. Proviamo allora a spiegarci meglio: se guardiamo alla maggiore produzione di Hemingway dal punto di vista esclusivamente stilistico, pare indubbio di trovarci di fronte a una scrittura profondamente diversa da quella di un Fitzgerald – valga per tutte una costatazione: l’assenza esplicita cioè di una costruzione lirica. Ma nella letteratura americana l’equazione «letteratura come vita» di cui ha parlato più volte Carlo Bo, almeno fino a quel momento, era ancora inscindibile.

Hemingway allora, proprio come fa Jack London, ha precisamente davanti agli occhi una biografia ideale del sé: ma, a differenza di London, per tutto il corso della sua vita cerca di aderirvi in pieno. E ci riesce così bene che ancora oggi in film come Midnight in Paris (2011) o il più recente Genius (2016) l’immagine rimasta per la maggiore nell’immaginario comune è ancora quella macchiettistica del macho. Ma torniamo al nostro discorso: ciò che cerco di dire è che l’agens di questo ideale del sé agisce tanto sull’uomo quanto sulla sua scrittura, fino a far coincidere l’uomo e il personaggio, e viceversa… fino a trasformare infine Hemingway nel delirante Papa (soprannome con cui decide lui stesso di farsi chiamare quando finalmente diventa uno scrittore famoso).

Eppure… eppure qui ci viene in aiuto anche il testo: chiunque abbia letto Festa mobile credo sia rimasto stupido dal trovarsi di fronte a una persona completamente diversa, o quanto meno dalle asimmetrie tra la vita privata dell’uomo e il personaggio pubblico. Il problema principale tuttavia per la critica più o meno coeva è stato il fatto che Festa mobile è un libro postumo. Come scrive Federico Leoni, «al Ritz, nel 1956, Ernest Hemingway aveva scoperto di aver lasciato ventotto anni prima due bauli da marinaio pieni di appunti». Quando lo ritrova, l’uomo rimane sbigottito dallo specchio di ciò che era stato: così si mette a riscrivere interi capitoli, a correggerli, a tagliare selvaggiamente porzioni intere di testo nel tentativo di farne un libro che aderisca al contrario a ciò che invece era diventato. E il lavoro è talmente ampio, che il diario rimane teoricamente incompiuto e ci vorrà una prima edizione e poi infine una edizione restaurata per arrivare a una forma quanto più possibile vicina a quella che Hemingway avrebbe voluto. La domanda tuttavia rimane: a quale Hemingway?

E non bisognerà stupirsi nemmeno che l’uomo accusato di machismo abbia esordito allora con un romanzo in cui viene dibattuta con una grande profondità critica una difficile questione di genere: Fiesta (Il Sole sorgerà ancora). Cerchiamo così di arrivare a una conclusione: né Hemingway, né Fitzgerald sarebbero mai esistiti, almeno come li conosciamo oggi, l’uno senza l’altro. Se la scrittura del secondo si avviava verso l’inaspettato insuccesso degli ultimi anni di vita di Fitzgerald, mentre quella di Hemingway a giganteggiare il mercato da allora in avanti, ciò non avviene per caso, ma per la precisa acquisizione di un metodo professionale; solo che, a differenza di Fitzgerald,  Hemingway riuscirà a evitare di scrivere per le riviste ciò che le riviste si aspettavano da uno scrittore di successo. Infine, se il realismo sembrerà avere la meglio sul romanticismo, nonostante come vedremo negli articoli successivi la tendenza romantica non morirà mai definitivamente, bisogna comprendere che non si tratta da subito di una opposizione, ma che al contrario siamo davanti a una filiazione diretta, come ci dimostra la prima produzione di Hemingway e l’agens (pseudo) biografico sulla produzione successiva. Chissà del resto se lo stesso Hemingway non abbia da sempre voluto dirci qualcosa, per una volta senza trovare mai il modo giusto di raccontarla:

Molti anni dopo al bar del Ritz, molto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Georges, che è il barman di adesso e che era lo chasseur quando Scott viveva a Parigi, mi chiese: «Papa, chi era questo Monsieur Fitzgerald di cui tutti mi chiedono?»

«Non lo conoscevi?»

«No. Ricordo tutta la gente di quel periodo. Ma adesso tutti mi chiedono solo di lui».

«E tu cosa gli dici?»

«Tutto quello che a loro interessa sentire. Che può fargli piacere. Che cosa desidera? Ma mi dica, chi era?»

«Era uno scrittore americano dei primi anni Venti e anche dopo, che è vissuto un po’ di tempo a Parigi e all’estero».

«Ma come mai non me lo ricordo? Era un bravo scrittore?»

«Ha scritto due libri molto belli e uno mai finito che i migliori conoscitori delle sue opere dicono che sarebbe stato molto bello. Ha scritto anche dei bei racconti».

«Veniva spesso qui al bar?»

«Credo di sì» […] «Voglio scrivere qualcosa su di lui in un libro che scriverò sui miei primi tempi a Parigi. Ho promesso a me stesso che lo scriverò».

«Bene» disse Georges.

«Ce lo metterò esattamente come me lo ricordo la prima volta che l’ho visto».

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