Il limbo del tempo

A proposito di “I vivi e i morti” di Andrea Gentile

di / 27 giugno 2018

Copertina di I vivi e i morti

Le scritture più interessanti degli ultimi anni ambiscono a ripensare la realtà, a indagarne gli aspetti ontologici. In un presente in cui lo statuto del reale è sfuggente – complice la fusione con il virtuale – sembra essere questo uno dei compiti della letteratura contemporanea. In Europa è il caso di László Krasznahorkai e Mircea Cărtărescu e – data la potenza immaginativa delle sue storie – anche di Antoine Volodine, per quanto riguarda l’Italia questo è l’indirizzo dell’opera di Antonio Moresco. La scrittura di Andrea Gentile appare animata dalle medesime intenzioni: «Numeri di morti, numeri di vivi, numeri di uomini, numeri di muli», ne I vivi e i morti (minimum fax, 2018) l’oggetto narrato è Masserie di Cristo – un non-luogo di un Meridione fuori dalla Storia in cui si mettono in discussione le leggi della conoscenza.

«Cieli ascoltate. Terre, udite. Noi non siamo né vivi né morti. In principio qui non c’era proprio nulla. Siamo coloro che si nascondono dietro le pareti della grotta. Siamo pronti per venire al mondo, ma siamo ancora fermi. Qui, su questo terreno, si vivrà. Eppure, a guardarlo, si direbbe un posto perfetto per morire».

Così comincia il romanzo di Gentile, con la parola cosmogonica che genera un ordine altro, a metà fra l’epica ridotta a farsa e la favola oscura. Epica, favola, tragedia: l’impasto poetico si alimenta di queste tre forme sfumate, sublimate nell’atmosfera cangiante, nel romanzo ogni costruzione muta repentinamente nel suo rovescio. Entriamo in un territorio governato da una simbolismo diverso, un luogo in cui il tempo ha una consistenza materiale e lo spazio è abitato da un popolo di ombre: «Che cosa accade in questo luogo ignoto? Qui ci sono crateri, caverne e vallate ispide: ossa di un altro secolo».

La sensazione è che venga descritta una realtà parallela, eppure intimamente connaturata alla nostra, come se Masserie di Cristo fosse l’archetipo nudo della civiltà occidentale. L’ambientazione meridionale ricorda le fascinazioni di Carlo Levi per le culture al di fuori dalla Storia – come considerava le culture contadine del Sud ai tempi del fascismo. Eppure non si tratta solo di paganesimo, perché nella grammatica della regione di Gentile confluiscono il sacrificio rituale di René Girard, le storie di fantasmi di Poe, le avventure picaresche di Cervantes – in lande brulle così simili «alle pendici del monte Capraro». Il tempo del paese è fuori dalla Storia, ma allo stesso tempo ne è saturo, perché il sedimentarsi delle azioni e dei riti ha tagliato il contorno netto del tempo naturale, della lotta degli uomini con l’indistinto: «Eternità: la polvere che sta fra le crepe dei mattoni in cotto».

A Masserie di Cristo la morale è sospesa, non vi è distinzione netta fra bene e male, come fra la vita e la morte: «È noto a tutti su questa terra che quello che accade qui non è che la normale conseguenza del male inflitto, da sempre, per sempre, dagli dei e dagli uomini antichi vissuti su questa terra». Di male all’ombra del monte Capraro se ne compie tanto, dai soprusi di potere agli omicidi, dagli infanticidi ai sacrifici rituali, poiché: «È da considerare del tutto naturale, dunque, la catena di efferatezze, ferocie e ribellioni e tanto altro che attanaglia, di questi tempi, questa terra tremebonda». Il male descritto si configura come motore e conseguenza delle azioni degli abitanti della regione, ma anche come forza oscura che è doveroso individuare ed esorcizzare attraverso la sacralità della parola – d’altronde è solo dopo l’esperienza del male che si impara a comprendere il bene. La prosa dell’autore si modella secondo una litania che cerca di materializzare l’impalpabile metafisica del mondo di Masserie di Cristo: «Urla di sconcerto. Urla di rivoluzione. Tentativi di comprendere le meccaniche. Capire le meccaniche conferisce peso e concretezza alle cose».

Nel cosmo di Gentile si muovono personaggi stralunati, clowneschi, maschere perpetue di un mito sepolto nella cenere. La vita di molti di loro appare poverissima e feroce: «Le case degli abitanti di Masserie di Cristo e dintorni non sono che miserabili tuguri, coperti di legno e paglia, esposti a tutte le intemperie delle stagioni. L’interno non offre ai miei sguardi che: oscurità, miseria, sozzura». L’autore imbastisce un’epica di disgraziati, intesse una commedia di personaggi malevoli, sempre sul filo della perversione – per necessità o per semplice passatempo. Così leggiamo le peripezie di Italia e della sua cellula familiare implosa: la madre Evelina alle prese con le avances di Cowboy, il padre Tebaldo suicidatosi sotto gli occhi della figlia. E poi seguiamo le ricerca di Assuntina da parte di Concetta, e la scia di sanguinosi omicidi – corredati di fantasiose amputazioni – che dovranno affrontare gli abitanti e le autorità del posto. O ancora il conflitto di Beberto con l’Ispettore Agrario, inviato dalla “Società del libero pensiero”, una sorta di organo di potere che rappresenta la versione degenerata dell’illuminismo, tanto che l’eccesso di zelante razionalità porta alla sovrapproduzione di regole e burocrazie assurde.

Benché gli avvenimenti raccontati siano più affini alla tragedia, la narrazione non verte sull’emotività. La prosa di Gentile è un saliscendi cinico fra bozzetti grotteschi, comicità involontaria, brani realmente poetici e improvvise virate nella violenza granguignolesca. Nel mondo pagano di Masserie di Cristo l’unica religione sembra essere la parola, il potere dell’affabulazione che nominando il mondo lo modella, lo genera sottraendolo all’indistinto: «La parola. La indossiamo come fosse una perla; e invece è soltanto un po’ un profumo. Una pioggia e vola via. La parola sale sulle terrazze, alla sera. Ci guarda giocare in piazza al gioco del cruccrù. Ci giudica, alimentando dilemmi che mai scioglierà. Poi cade giù». Finzione del linguaggio e materialità del referente fisico si avvicendano come nelle danze a margine di un rito antico: «Le lettere, che dicono essere segni rivelatori delle cose, immagini delle parole stesse, dotate di una tale forza che, pur senza suono alcuno, ci trasmettono ciò che è stato detto da persone lontane. Che cosa dire delle lettere, prive di dignità, sudditi infiniti della parola, unici mezzi per far sì che la parola entri in noi attraverso gli occhi?», il romanzo è costellato di questi momenti – isole di speculazione fra i mille rivoli di una narrazione intricata.

A un certo punto della storia scoppia una guerra, una sorta di conflitto civile fra gli abitanti della parte inferiore del paese e quelli della fascia superiore. Si tratta di uno scontro fra pari e si configura come una ballata, il valzer di un mondo ripiegato su se stesso, l’eterna dialettica dell’evoluzione che porta a un momento di presunta catarsi attraverso il rito violento. Questa guerra si officia come una cerimonia, sospesa fra l’enfasi della pratica religiosa e la scompostezza di un evento caotico. Ancora una volta la lettura di Gentile è ambivalente: se da una parte si getta luce sull’importanza delle azioni umane (anche se queste si ripetono da migliaia di anni), dall’altra se ne evidenzia la portata ridicola. Gli uomini si riproducono e muoiono, altri uomini li soppianteranno, il formicaio rimarrà invariato, prospererà sui piccoli dolori individuali. L’avvenimento della guerra scopre l’ultima grande ambizione della narrazione: non solo indagare lo statuto della realtà, ma ricapitolare – attraverso una parabola definita – lo sviluppo, il crollo e la rinascita della civiltà. Masserie di Cristo è riassunto dell’intero consorzio umano, la voce narrante profetizza: «Ci diciamo che tutto si distrugge ma tutto si accumula», ecco che ritorna la materialità del tempo.

I molteplici livelli di lettura interpolati nel romanzo di Andrea Gentile lo rendono un’opera letteraria trasversale, in grado di veicolare il senso della ricerca metafisica e l’affanno del pellegrinaggio individuale, mentre all’orizzonte il linguaggio emette la sentenza definitiva: «I concetti, da sempre, ti sfuggono. Così ti pare. Ciò che tu senti non riesci a esprimerlo esattamente. La loro inafferrabilità è ciò che più, su questa terra, si avvicina alla morte».

 

(Andrea Gentile, I vivi e i morti, minimum fax, 2018, pp. 549, euro 18)
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