Ray Bradbury: da Città del Messico a Marte
La sopravvivenza nascosta del romanticismo americano
di Antonio Merola / 21 settembre 2018
Dopo la crisi del 1929, il romanticismo americano sembrava sull’orlo della dipartita finale: niente infatti riusciva più a smuovere la scrittura di F. Scott Fitzgerald, seppure qualcosa brillava ancora nella prima produzione di Ernest Hemingway. Si avvicinava una nuova guerra e i giochi privati stavano per finire: la letteratura entrava ora in dialogo con la politica. C’era chi, come John Steinbeck, aveva cercato con Pian della tortilla (1935) di tornare indietro per guardare avanti: dove il socialismo si incontrava con il New Deal, il romanticismo europeo veniva messo faccia a faccia con quello proprio degli States. Ma non era bastato, la guerra era venuta comunque: e con essa, il realismo letterario dilagava.
Eppure, nell’immediato dopoguerra, le riviste letterarie americane cominciarono a ospitare anche alcuni brevi racconti di uno scrittore fino a quel momento poco conosciuto: all’anagrafe, Raymond Douglas Bradbury. Si trattava, a prima vista, di una scrittura quanto mai innocua, perché apparteneva al genere della fantascienza. Nessuno forse riusciva ancora a immaginare che quell’insieme sparuto di racconti, nella mente dell’uomo stavano trovando via via la compiutezza dell’opera decisiva. Ecco come Giuseppe Lippi (1990) ci descrive il momento: «nel 1950, Ray Bradbury raccoglieva in volume le sue Cronache marziane e sanciva l’inizio di una nuova era di rispettabilità letteraria per la fantascienza. A quell’epoca gli autori dell’età dell’oro erano tutti indaffarati a ristampare i propri racconti d’anteguerra presso piccoli editori amatoriali, pur di averne un’edizione rilegata e sottrarli all’oblio delle riviste. Bradbury non si accontentò di tanto poco: fece uscire le sue Cronache presso Doubleday (una delle maggiori case editrici newyorchesi) e conquistò immediatamente l’attenzione della critica. In Italia Giorgio Monicelli le tradusse nella Medusa di Mondadori. E il resto, come dicono gli americani, è storia».
Cronache marziane è una raccolta di racconti che ha cercato di farsi romanzo, senza mai riuscirci fino in fondo. Ma è proprio in questa peculiarità, che noi possiamo scorgere infine la sopravvivenza del romanticismo di stampo americano: anzi tutto, nonostante la supremazia indiscussa dello stile realista, la confusione sul genere non ha impedito a Bradbury di raggiungere con estremo entusiasmo il grande pubblico. Una ragione intrinseca è da ricercare nel fatto che gli anni Trenta e gli anni Quaranta, attraverso le opere di Aldous Huxley e di George Orwell, avevano spianato il terreno alla distopia letteraria. Se è vero, Cronache marziane parla di un futuro o, perlomeno, di un presente non troppo lontano da noi. Perché ciò che rendeva forte la scrittura di Huxley e di Orwell era proprio questa prossima immediatezza.
Eppure, una parte della critica americana è convinta che le Cronache raccontino il passato: a partire dal capitolo Dicembre 2001: il verde mattino di Benjamin Driscoll, dove il personaggio principale della sezione decide di seminare il terreno marziano – così che coloro che sarebbero arrivati dopo di lui avrebbero trovato sul pianeta un’aria simile a quella terrestre – si è voluto rintracciare nel testo una allegoria dell’avventura pionieristica della colonizzazione americana. Dalla bocca di Benjamin Driscoll infatti esce fuori all’improvviso un paragone più che mai esplicito: «È ben per quello che sono qui – disse Benjamin Driscoll. Il fuoco scoppiettò. A scuola, ricordo, ci raccontavano la storia di Johnny Aplleseed che attraversò a piedi tutta l’America piantando meli. Ebbene, io sto facendo qualcosa di più: io pianto querce, olmi, ippocastani, ogni specie di alberi, cedri, pioppi, castagni. Invece di creare soltanto frutti succosi per lo stomaco, fabbrico aria per i polmoni. Quando questi alberi avranno qualche anno, pensa all’ossigeno che fabbricheranno!»
Allo stesso modo però, si potrebbe obiettare che, con grande abilità, Bradbury si ricollega al proprio presente, perché mentre la colonizzazione marziana è ormai terminata, sulla Terra scoppia una gigantesca guerra mondiale: a questo punto, la popolazione che si era stabilita su Marte decide di tornare a casa per combattere: come gli americani che sbarcano in Europa. E potremmo andare ancora più oltre, cioè ai nostri tempi, quando l’imprenditore sudafricano Elon Musk, durante una conferenza stampa a Guadalajara, in Messico, annuncia che in venti o trent’anni sarà in grado a portare l’essere umano su Marte. Se così fosse, Bradbury ci avrebbe visto ancora più giusto – o quasi. Cronache marziane racconta della colonizzazione umana del Pianeta rosso tra il gennaio 1999 e l’ottobre 2026. Una differenza di circa un decennio allora; con l’aggiunta che l’operazione reale di Musk riguarderebbe l’acquisizione di una terra, e non di un territorio: non ci sarebbe alcuna popolazione nativa da assoggettare.
Ma ora conviene guardare alla scrittura di Bradbury con la lente di ingrandimento: benché sia sicuramente più trascurata di quella del romanzo successivo Fahrenheit 451 (e il motivo è legato in primis alla pubblicazione veloce sulle riviste), bisognerebbe fare i conti con il rapporto che la scrittura di Bradbury ha con il romanticismo americano. Forse John Noble Wilford non si sbaglia quando dice che: «probabilmente le Cronache sono il miglior libro che sia stato scritto su Marte. È una raccolta di racconti popolar-onirici che descrivono gli ultimi giorni dell’antica civiltà marziana e l’arrivo dei coloni terrestri. I suoi capitoli, di volta in volta, sono poetici e ricchi di humor, pessimistici e ottimistici. Nella descrizione dell’uomo visto come sfruttatore del pianeta, Bradbury è implacabile: i terrestri dissacrano le splendide città di cristallo, distruggono le loro torri usandole come bersagli; i marziani, al contrario, sono descritti con viva simpatia. Hanno la pelle bruna, occhi gialli come monetine, dolci voci musicali».
Rimaniamo sull’elemento onirico: in un momento di estrema difficoltà per il romanticismo americano a favore dello stile realista, Bradbury riprende quel particolare lirismo magico proprio di Fitzgerald per situarlo fuori dall’ordinario, anziché cercarne la forza a partire da una base biografica o dall’invenzione e il camuffamento di essa. Le Cronache marziane guadagnano cioè il favore dell’esclusività dell’immagine, una immagine magica, che sovrasta tutto il resto, rendendole simile a un album tenuto insieme da… già, da che cosa è tenuta insieme questa raccolta di racconti?
Credo che la chiave di lettura sia da ricercare in Giugno 2001: And the Moon be still as bright. Qui ci troviamo davanti a questa situazione: il giovane archeologo Spender decide di sterminare l’intero gruppo terrestre giunto in perlustrazione del Pianeta rosso, eccetto il capitano Wilder, da cui viene consapevolmente ucciso. È tra Spender e Wilder che si nasconde il nostro autore: entrambi i personaggi sembrano conoscere bene la natura umana, ma si pongono verso di essa in maniera del tutto differente l’uno dall’altro. Se il primo si ritira infatti nel proprio mondo immaginario, ma decide poi di farsi agens di un cambiamento impossibile; il secondo crede nella possibilità del cambiamento, ma sceglie di agire nel segno della distruzione. Wilder cioè comprende Spender, ma non fa niente per impedire la colonizzazione di Marte.
Bradbury è stato uno scrittore attento: sembra evidente come abbia ascoltato la lezione dell’esistenzialismo francese, laddove è l’agire che crea l’uomo. Pure, al contrario delle altre scritture del dopoguerra, è riuscito a collocarlo tanto più vicino a noi, quanto più lontano esso veniva rappresentato: la causa dell’agire di Bradbury è prima di tutto l’archetipo, l’immagine – ma anche la tradizione, si pensi per esempio alla balena bianca di Melville. Cronache marziane si conclude con una visione che sembra ottimistica, e insieme necessaria: Marte è ormai un pianeta abbandonato, ma durante la guerra alcuni esseri umani decidono di rifugiarsi lì e di ricominciare a vivere. Questi coloni diventano allora i nuovi marziani, che portano però sulle spalle il peso di ricostruire una umanità diversa. Ma la storia di Marte, in realtà, è già stata scritta e forse non può che ripetersi uguale a se stessa. Perché Bradbury racconta di una storia di profughi: gli esseri umani che fuggono dall’umanità. E forse allora, ciò che davvero è importante, non è se ci parlasse davvero dello sterminio dei pellerossa o della seconda guerra mondiale; forse cioè, ancora una volta, dobbiamo tornare a ciò che il comandante Spender dice a Wilder, laddove Wilder non è che una seconda faccia di Spender, e di Bradbury, e forse di tutti noi:
«Quand’ero bambino, i miei genitori mi condussero a visitare Città del Messico. Ricorderò sempre il comportamento di mio padre, chiassoso e spavaldo. Mentre mia madre non poteva soffrire i messicani, perché bruni di pelle e poco puliti, e mia sorella non poteva risolversi a parlare a un messicano, io ero l’unico che li trovasse realmente simpatici. E immagino benissimo mio padre e mia madre che vengono su Marte e si comportano allo stesso modo che a Città del Messico».
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