Fiabe: istruzioni per il riuso
“La bambina falena” di Luca Bertolotti
di Cristiana Saporito / 4 ottobre 2018
Comincia tutto così. Da una partenza che sembra un parto. Un atto creativo a squartare la quiete nel pieno del petto. Sono le favole a innescare la vita, a tirar dadi nel buio. Quel «c’era una volta» ogni volta spiazzante, che ci spagina il cuore e non lo sfama abbastanza.
Ce l’hanno insegnato anche Vladimir Propp e Bruno Bettelheim, ma in fondo ciascuno di noi lo sa sottopelle, senza averlo mai teorizzato. Siamo nervi di storie e poche altre cose. Dalla Genesi al mito al teatro di ovunque, ogni forma di racconto attinge a quel pozzo.
Poi ci sono quelli che lo fanno apertamente, che bevono favole al punto da volerle riscrivere. Rigurgitarle col proprio dialetto e impastare il modello di altre scintille.
Mi ha divertito anni fa Martino Ferro col suo C’era una svolta; ho annaspato con Antonio Moresco nella deriva ansiogena delle sue Fiabe e Michael Cunningham non è stato da meno, orlando di crimine e perdizione i contorni ben poco fatati dei suoi personaggi nella raccolta Un cigno selvatico. Ora è il turno di Luca Bertolotti. Operaio specializzato nel settore del mobile, questo recita la nota biografica. Ma siamo anche di fronte a un falegname di avventure?
La bambina falena (Fandango, 2018), così s’intitola il suo esordio letterario. Cresciuto (come il suo autore?) nel solco di Hänsel e Gretel e di quel grembo un po’ torvo tipico dei Fratelli Grimm.
Ci troviamo in Liguria e una bimba sbuca dal mare. Come fosse una conchiglia o una dolcezza anfibia. Un po’ Venere e un po’ Colapesce. Zuppa di sale come il bambino ostrica di un racconto di Tim Burton. Non si sa niente di lei, da dove provengano quegli occhi voraci macchiati di prato. È piccola, non parla un granché. In bocca ha solo avanzi di parole che sembrano briciole. E ricordi ancora più piccoli e più avariati. «Fanti biacchi» le torna tra i denti e quando qualcuno le chiede il suo nome lei risponde «Glete». Nient’altro. Poi lei e quella nube d’insoluto che si porta addosso vengono adottati. Da una brava coppia milanese che però muore in fretta e la lascia sola intorno ai vent’anni.
Greta sceglie di non accontentarsi della sua seconda vita. È una creatura speciale, lo ha imparato dal suo corpo. Che spesso imbarca dolore come una chiglia squarciata e la lascia spossata e senza risposte. Quel corpo mobile e iperesteso che la rende troppo elastica, quasi abitasse dentro a un fumetto. La sua è la sindrome di Ehlers-Danlos. Lassità legamentosa e cute molle, praticamente liquida. Un regalo genetico e perciò irreversibile. Da chi e da cosa l’ha ereditata? Si muove per capirlo e riapproda alle sue origini, in quel paese di spiagge dove tutto è iniziato. San Michele Arcangelo è un groppo di muri corrosi, ma quello che cerca Greta è una casetta nascosta (in pieno stile fiabesco) scavalcando un campeggio e addentrandosi nel bosco.
Fiutando solo la memoria e a dire il vero un po’ troppo agilmente malgrado le sue condizioni (il tutto grazie a folate di intuito e ai già citati elefanti bianchi), la ragazza rintraccia il suo nucleo, quella famiglia che l’ha generata e poi sganciata lontano.
È un gruppo clandestino, infognato tra gli alberi per provare a non esistere. Composto da un fratello minore, che (ovviamente) si chiama Hänsel, dalla mamma Miriam, dal padre Paolo e dalla piccola Sissi. Con la schiena che sembra un prodigio: «Si era sfilata la casacca del pigiama, si era afferrata la pelle fino alle costole e l’aveva tirata fino a formare due vele, come quelle che venivano utilizzate per buttarsi dai dirupi per planare». Con la sua stessa sindrome elevata all’infinito. Da bambina falena.
Quei quattro si rintanano, scansano la luce, perché il passato di Miriam, lo stesso da cui è sgorgata Greta, è ruvido da raccontare. E illecito da vivere. È stata una tossica (ribattezzata la Santa), poi una prigioniera, infine una complice in un omicidio. Ingravidata per capriccio e inscatolata nel silenzio di una stanza. Quella famiglia non può comparire e scoprirlo costringe Greta a ingabbiarsi con lei. Dentro una cantina che non è di marzapane. Per fortuna non è sola, ma con un ragazzo appena conosciuto e già innamorato fino al midollo, tanto da farsi incarcerare assieme a lei.
Diventa ostaggio di chi dovrebbe proteggerla e che non trova impensabile zavorrarla con un’incudine, incarnando quel tratto di crudeltà genitoriale tipico del registro dei Grimm.
Allora sì che quelle ali sarebbero un miracolo, un’ingegneria di fuga pronta a essere carpita. Basta mettere a punto un piano, tanto folle quanto artigianale. E spetterà a Greta in qualche modo infornare la sua strega e consegnarsi senza appello al mondo adulto.
Esperimento interessante e nel complesso riuscito, con qualche ingenuità disseminata soprattutto nei dialoghi (con Lorenzo nell’Ostalgic Pub) e nei passaggi iniziali. Molto più valida la ricostruzione della giovinezza di Miriam, il triangolo inquieto tra lei, Paolo e il suo “padrone” Andrion e il rapporto tra Paolo e suo fratello Andrea.
Quello di Bertolotti è un linguaggio asciutto, ma spesso ficcante, che mescola estratti densi e realistici a elementi fiabeschi. Alcuni molto convincenti.
Sul perimetro intero del libro si stende l’ombra di Mothman, l’Uomo falena, avvistato negli anni ’60 tra la Virginia e l’ Ohio e poi ancora una volta, come duplice creatura, metà angelo e metà arpia, la mattina del’11 settembre 2001. Un graffio volante sul cielo che fuma. A ricordarci che ogni storia degna del suo plasma sopravvive ogni giorno grazie a quello che non riesce a spiegarsi.
(Luca Bertolotti, La bambina falena, Fandango, 2018, pp. 319, euro 18)
LA CRITICA
Per il suo primo romanzo Luca Bertolotti si confronta col terreno della fiaba e rivisita un classico dei Fratelli Grimm, con un adattamento contemporaneo originale e a tratti grottesco. Un cocktail decisamente sovraffollato ma altamente commestibile.
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