Il maschio in gabbia, la gabbia del maschio
“L’animale che mi porto dentro” di Francesco Piccolo
di Marco Terracciano / 26 febbraio 2019
È utile raccogliere le reazioni dei lettori per scrivere dell’ultimo libro di Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro (Einaudi, 2018). Poco importa che appartengano a critici e recensori, quindi a “professionisti” della lettura che, in genere, soffrono l’immedesimazione. Non c’è, infatti, desiderio di distant reading nelle parole di Annalena Benini (Il Foglio) e Davide Brullo (Linkiesta) . Entrambi si misurano con l’uomo Francesco Piccolo, non con la sua scrittura. La prima lo fa con uno sforzo di comprensione, il secondo mostrando un affilatissimo disprezzo. Comunicano questo: L’animale che mi porto dentro colpisce, intimidisce e disturba. In una sola parola seduce.
La trama: Francesco Piccolo si confessa. Autofiction o no, non è questo che importa. Ci racconta le tappe della sua educazione maschile, la contraddizione culturale che attraversa tutti gli appartenenti al genere. Da un lato il bisogno umano di sentimentalismo (inteso non come ostentazione patetica, ma come inclinazione a fare emergere la propria emotività), dall’altro il bisogno maschile di attenersi alla narrazione comune per soddisfare un desiderio di appartenenza. «Sembravano tutte – così dicevano – magre, alte, allegre» scrive a proposito delle sue esperienze estive a Baia Domizia, quando era poco più che un bambino e la sua comitiva alimentava miti sessuali su un gruppo di ragazze svedesi. In quel «così dicevano» c’è il senso di tutto il discorso: quando ancora non sa cosa pensare del corpo femminile, ecco che dentro di lui si insinuano gli schemi della comunità.
Smanioso di entrare a far parte del gruppo dei grandi, Francesco assimila come una spugna, modifica il suo atteggiamento e la sua percezione del mondo. Ma cosa comunica, esattamente, questa narrazione? Che al maschio tutto è concesso, che per statuto ha la forza, l’intelligenza, il carisma per volare alto, l’indulgenza plenaria in caso di oscenità, volgarità, violenza e indolenza. Da qui il dramma: può sembrare paradossale, ma il maschio come ce lo racconta Piccolo soffre della forma più classica di bovarismo, ossia la frustrazione inevitabile dopo la scoperta che la realtà non coincide con la sua rappresentazione.
L’enorme disagio emotivo che ne consegue emerge dalle pieghe del discorso, non tanto dalla presa d’atto che la lotta tra affermazione della diversità e istinto connaturato è persa, quanto dall’ambivalenza che si crea tra bisogno di confessione ed esibizionismo. «La paura, ho capito grazie a questo libro, non la paura indotta ma la paura in sé, è un sentimento maschile» conclude Benini; «La biografia adolescenziale di Piccolo non tocca gli universali, non va oltre il quartiere dei fatti suoi, è piena di eventi dimenticabili, è un diario delle polluzioni notturne, nostalgiche», rincara Brullo.
Lo stile: cazzo è una parola molto ricorrente e, di certo, quella a cui si fa più caso durante la lettura. Usata in ogni contesto, Piccolo non ammette sinonimi. Questa particolare intransigenza è il sintomo della sua ossessione per la provocazione, la prova del fatto che la scelta della terminologia adatta all’organo maschile smaschera sempre un atteggiamento preciso. Il racconto della sua vita è una continua scarica di colpi contro la sensibilità del lettore, una sfilza di «scopate», «tette indimenticabili» e «dita in culo». Questo è il punto: Piccolo non può rivelarsi senza filtri, non se la sente. Ha bisogno del linguaggio della provocazione per tutelarsi. Essa funziona come schermo morale nel momento in cui attira su di sé la convinta antipatia del lettore, un gioco stilistico che crea un cortocircuito: “mi credi o non mi credi?”. Del resto, il fascino dell’autofiction sta tutto qui, nell’impossibilità di scindere il vero dal falso, di separare autore e personaggio. La ciclica disputa se sia o no pertinente operare questa separazione non ha davvero una risposta. Si anima, anzi, grazie alla combustione creata dalla continua riproposizione del quesito.
Altro aspetto, infine, è la separazione tra individuo e collettività, tra persona e «panopticon». Se vuole rinunciare a vivere dentro al carcere della virilità per recuperare una sua singolarità, il maschio deve fare i conti con «lo sguardo degli altri maschi che non riesci mai a toglierti di dosso nemmeno per un secondo». Questa bidimensionalità si esprime anche a livello stilistico: frequenti sono i passaggi dal racconto autobiografico all’analisi delle opere narrative entrate nell’immaginario collettivo (i film di Maciste, Il padrino, Malizia, i libri di Philip Roth). La riflessione sul film Malizia di Salvatore Samperi (1973), in particolare, è uno dei passaggi più belli del libro, perché unisce i due momenti fondamentali con cui si misura lo spirito critico quando ha a che fare con un’opera che lavora con l’immaginario: interpretazione sovrapersonale ed esperienza individuale.
Nel complesso, L’animale che mi porto dentro è un libro che costringe a schierarsi. Ha una sua coerenza simbolica e, soprattutto, una notevole credibilità narrativa che non infrange mai il patto col lettore. Questi, tra tutti, sono i punti di forza di ogni narrazione che ambisca a essere qualcosa di più di una semplice raccolta di aneddoti.
(Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro, Einaudi, 2018, pp 240, euro 19,50)
LA CRITICA
Piaccia o no lo stile, Francesco Piccolo ha dato voce da un lato a un’istanza di confessione, dall’altro al desiderio di una più o meno grande comunità maschile di esorcizzare le proprie paure.
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