Solo chi ascolta sa raccontare
“Resoconto” di Rachel Cusk
di Cristiana Saporito / 2 aprile 2019
«Non accade nulla in questo romanzo. Eppure accade di tutto». Così il New York Times inscatola il senso intimo e ultimo di Resoconto (Einaudi, 2018, traduzione di Anna Nadotti), primo atto della trilogia di Rachel Cusk, canadese di nascita, inglese di adozione.
Può calamitare come biglietto d’ingresso? Dipende dalle aspettative. Chi si approccia a un libro come a uno snodo d’incidenti a catena, o a un acquazzone proverbiale potrebbe lamentarsi di uscirne troppo asciutto. Al di qua di quanto sobbolle sotto abiti e pelle. O della febbre accollata alle ossa. Una storia molto simile al suo titolo. Specchio e confine della sua emanazione.
Faye, una scrittrice londinese, è in procinto di partire per la Grecia, dove non l’aspettano ruderi e sole, ma un corso di scrittura creativa. S’imbarca, com’è inevitabile nel luogo in cui viaggio e racconto s’attorcigliano chiedendo soltanto di non distinguersi. In aereo il suo vicino di posto inizia a narrarsi, a rovesciarle sul fianco litri di vita piovuta. I suoi successi, i contraltari del fiasco, i matrimoni raccolti come funghi di dubbia natura, i figli su cui tutto è sfumato, i tradimenti come boccate di vento, il crollo economico, una piccola barca su cui rifiatare.
È lì che la invita, nelle crepe di muro e di tempo che il suo lavoro potrà concederle. Ed è lì che il Resoconto prosegue. In quel rettangolo di mare, al largo ma non al riparo, si condensa l’imbarazzo di uno scambio già profondo e non richiesto. Movenze, parole, schiena e affanno di quell’uomo fungono da schermo, superficie distorta e riflettente delle inquietudini che ondeggiano, sopra e sotto la schiuma.
«Avrei potuto nuotare per chilometri, fino all’oceano: un desiderio di libertà, un impulso a muovermi, mi trascinava come fosse uno spago legato intorno al mio petto. […] Era semplicemente il desiderio di fuggire da ciò che avevo. Lo spago non portava da nessuna parte, se non in lande sempre più distese di anonimato».
Lei che ascolta e custodisce, lei che afferra quel fiotto rovente e ci ritrova le sue squame. La sua voglia di evaderle.
Bastano i brani dell’altro, le scie di sale e frustrazione seminate in quelle ore, a comporre il suo ritratto. Ciò che Faye ha realizzato e il combustibile bruciato nel frattanto. La sua incapacità di filtrarsi dalle cose: «Era all’incirca così che mi sentivo, esposta da ciò che vedevo, e da ciò sconfitta».
È in compagnia di un uomo che non le piace affatto, eppure non si sottrae. Si lascia scalfire e la trama dell’altro diventa artefice del proprio percorso. Avviene anche con Angeliki, autrice in giro per l’Europa incrociata ad Atene, che a sua volta si tramuta nello scrigno di altre esistenze, captate lungo la via. L’equilibrio familiare in perenne oscillazione, il dilemma fendente dell’essere madre, il lavoro come salvezza e detonazione.
Avviene con Elena, amica bellissima e lacerata. Che intercetta il suo compagno mentre dichiara ad un’estranea di non volere più figli e senza preavviso si sente espropriata dal suo futuro, che in quel Resoconto abbranca più sostanza che in mille altri angoli di coppia. Avviene con gli allievi del suo corso.
Ogni personaggio si forma così, dalle scorie esalate nell’incontro col prossimo, dall’impatto con le storie carpite come conchiglie improvvise. E in questo effetto ineludibile abita il destino della scrittura. Anche di quella che non lascia inchiostro. La tendenza a ri-formulare noi stessi e i nostri inquilini di strada attraverso confessioni e mancanze. Mantenere alcune tracce, altre disperderle. Ricostruirci in base a ciò che ci sembra importante. Che resta un capitolo. Da leggere o da creare.
Quanto siamo bravi a scrivere i testi delle nostre vite? Quanti dialoghi sbaviamo? Quanti intrecci ci fanno da scheletro e quanti altri diffondono briciole? E quante briciole trattiamo da scheletri o viceversa?
Insomma, cosa manca alle nostre scelte per forgiare un buon romanzo? E quanto siamo il riflesso di ciò che gli altri riportano? Quesiti che galleggiano a varie altezze nel lago denso di questo volume, in cui la protagonista, alter ego di Cusk, si conferma tale nella sua veste e nella sua abilità di narratrice. Di lei sappiamo poco, di lei sappiamo che entra in relazione.
Che è colei che impugna i fili. Detentrice dell’intelaiatura, ma in fondo non padrona. A possederla per intero sono solo le vicende inserite. E sotto questo aspetto nodale, Resoconto ricorda libri che sono piccoli sterminati castelli di testimonianze, architetture di singole cronache in cui ognuna ha il suo peso specifico, come La tredicesima storia di Diane Setterfield, Conta su di me di Jorge Bucay o il famoso L’albergo delle donne tristi di Marcela Serrano.
Con un linguaggio sempre lucido e affilato, Rachel Cusk ci offre spicchi di un frutto prezioso: la bellezza molteplice delle nostre inconsistenze. Tutte qui, tutte altrove. Pronte a tradirci. E a farsi perdonare, per volte infinite.
(Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi, 2018, Traduzione di Anna Nadotti, pp. 192, € 17.00 | Recensione di Cristiana Saporito)
LA CRITICA
Ritratto di ritratti. Questo romanzo di Rachel Cusk, primo di una trilogia, è un recipiente di storie. La protagonista ne è la depositaria prescelta, ascolta i racconti dei suoi interlocutori e la sua vita emerge attraverso le loro parole, i loro drammi riferiti. Con una precisione strabiliante. E una lente infallibile.
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