Quando il mondo è scritto in una lingua straniera
“Dove finiscono le parole” di Andrea Delogu
di Cristiana Saporito / 23 aprile 2019
Ne sono sempre stata convinta. Prima ancora di saperlo. Quello che chiamiamo “mondo” è solo una macchia di pagine, un’occasione di voci e tempeste su cui la vita nevica, come una fitta continua, inseparata dal suo odore e dalla febbre del suo inchiostro. Insomma, io che non ho conosciuto quasi niente che non fosse rinchiuso da un libro, io che non ho mai imparato a pedalare, ma sfreccio su un romanzo senza frenare gli occhi perché su quella pista proprio non posso deragliare, non riesco a immaginare neanche una scheggia d’universo che non sia fatta di parole. Uno scarto di sbadiglio che non ci chieda l’urgenza di essere letto, dato che è lì, appollaiato nel suo imperativo. Per me leggere è un prurito, una tosse convulsa, uno spasmo amoroso che trasuda dai polmoni. Diciamo un atto involontario camuffato da lavoro. Quindi, avvicinarsi al testo di Andrea Delogu è stata certamente un’esperienza un po’ straniante. Siamo in terra di antipodi, nell’emisfero opposto a quello di avvitamenti e fiction in cui sento di giocare in casa.
Dove finiscono le parole (Rai Libri, 2019) è semplicemente la storia non facile della sua autrice. Non si racconta qui per la prima volta. L’ha fatto già nel 2014 con La collina (Fandango Libri), realizzato insieme ad Andrea Cedrola, in cui squaderna la sua infanzia a bordo della bolla di San Patrignano, comunità di recupero per tossicodipendenti. Il suo passato da figlia di figli fragili, frantumati dalla droga e ricomposti dal coraggio, viene esperito e narrato come una rara avventura. Un privilegio d’incontri che le è rimasto addosso.
Questo è un altro angolo della sua stanza. Come esplicita già il sottotitolo, quello della sua dislessia. Quello di una persona per cui leggere è tutto tranne che un istinto.
Andrea è una ragazzina brillante, pronta a cogliere, a discutere, curiosa di fiutare le correnti e le domande che piovono per innaffiare le cose. Ma da subito si accorge che le parole, quelle scritte, impattano su di lei come un pianetoide. Sono un corpo estraneo, roccioso, un incontro oscuro in cui “mamma” si confonde con “mucca”, mentre per il suo migliore amico quei primi istanti di lettura sembrano provenirgli dalla pelle, così naturali, così destinati alla sua bocca. «All’epoca stavo appena cominciando a rendermi conto che qualcosa non funzionava nel mio rapporto con le lettere, perché lui le gestiva benissimo e non mostrava alcuna esitazione, mentre io stavo lì a riflettere, a guardarle, a capovolgerle, ribaltarle, e continuavo a faticare da matti per dar loro un senso».
Andrea inizialmente non si allarma, vuole salvare il suo guscio e si convince solo di conoscere un piccolo prodigio.
Ma la scena a scuola non cambia. Quando si tratta di leggere, il confronto con la pagina si tramuta in una prova a cronometro, una scalata contro una vetta pensata per scivolarci sopra e il giudizio che si forgia su di lei, in classe, in un contesto educativo di fine anni ottanta totalmente impreparato a riconoscere i disturbi dell’apprendimento, è quello di un’alunna svogliata, intorpidita dalla noia, incapace di sintonizzarsi con i ritmi del gruppo, intelligente ma incostante, solo per sua volontà.
E col tempo, con i passaggi di grado, questa percezione non s’inclina. “Dislessia” è ancora un termine alieno, che nessuno pronuncia accanto al suo caso. Andrea si diploma con fatica, schivando ogni anno lo spettro della bocciatura, sorretta dall’appoggio dei suoi compagni di studio che, al contrario di quanto spesso avviene, si attivano per sostenerla senza additarla.
Per fortuna, parallelamente a un mondo codificato per farla sudare e sentire in crisi, esiste un sistema in costante espansione, quello della comunicazione mediale, della tv, da cui fin da piccola impara la sua lingua, e poi quello della Rete, una piattaforma di occasioni sempre nuove, di canali audiovisivi in cui Andrea riesce ad esprimersi senza impigliarsi negli spigoli. Un giorno, un semplice video su YouTube intercettato da sua madre, le permette di appurare che tutti quegli stenti, quei decenni di sconfitte e lentezze davanti a un testo scritto hanno un nome e una diagnosi. E quell’esatto istante scioglie il peso di una rivelazione.
Ora Andrea sa, Andrea può, riesce a ottenere con chiarezza una “lettura” del suo quadro in cui quei segni si accavallavano come ricami di divieti. Ma c’è di più, perché tra provini, contratti e successi, quella radiotelevisiva diventa la sua dimensione professionale, in cui mostrarsi con la scioltezza di altri mezzi. Dove finiscono le parole può cominciare la storia di molti e questo volume, ideato e scritto come una chiacchierata, senza traccia di pretesa o velleità letteraria, offre un’escursione garbata e semiseria in una vita non comune, ma toccata da una condizione più diffusa di quanto si creda. Riconoscere e stimolare i propri figli, i propri studenti, individuare i disagi e non agire da analfabeti di fronte ai loro altri linguaggi, sono questi i bisogni reali, quelli che costano tempo e pazienza, da parte di chi impara e di chi insegna, di chi cresce e di chi ama.
Un libro che si accoda a una scia di titoli importanti, per restituire il senso sempre speciale ed esigente di ciascun bambino e delle sue risorse, come Un pesce sull’albero di Lynda Mullaly Hunt (uovonero, 2016) o Il bambino che disegnava le parole di Francesca Magni (Giunti, 2017).
Un libro bello? Un libro utile a chi ritiene che per lui i libri e i boschi che contengono siano solo un problema. Mentre ancora una volta fanno parte della soluzione.
(Andrea Delogu, Dove finiscono le parole, Rai Libri, 2019, pp. 235, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
LA CRITICA
Andrea Delogu ci propone con leggerezza e autoironia un’altra porzione della sua storia, del suo modo speciale di approcciarsi alle parole, dimostrando con semplicità come le debolezze vadano colte, comprese e trasformate.
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