“Beautiful Boy” spreca il talento dei suoi attori
Sul primo film americano del belga Van Groeningen
di Francesco Vannutelli / 14 giugno 2019
Dopo la presentazione a Toronto e alla Festa del cinema di Roma 2018 arriva nelle sale italiane Beautiful Boy, film di droga e amore familiare interpretato da Steve Carell e Timothée Chalamet.
Basato sui libri autobiografici dei due protagonisti, il giornalista David Sheff e il figlio Nick, Beautiful Boy racconta la storia di una famiglia dilaniata dalla tossicodipendenza del giovane figlio. È una vita apparentemente felice, quella dell’adolescente Nick. Ha un ottimo rapporto con il padre, con la sua seconda moglie e i suoi due fratellastri. È bello, intelligente, interessante, avrebbe un ottimo futuro davanti a sé. La droga la incontra per curiosità, più che per disperazione, e quando arriva alle metanfetamine tocca un punto così basso da cui non riesce più a risalire. Ci prova, si attacca al padre, alla madre, tradisce la loro fiducia, si riscatta, ricade.
Il regista belga Felix Van Groeningen si era imposto all’attenzione internazionale nel 2012 con il film Alabama Monroe, candidato all’Oscar per il miglior film straniero nell’anno della vittoria di La grande bellezza. Per il suo esordio nel cinema statunitense sceglie di affidarsi ai suoi interpreti per una storia di sentimenti forti e difficili come già aveva fatto per il suo film più celebre.
La straordinaria coppia di interpreti regge in piedi il film. Steve Carell riesce con sempre maggiore credibilità a proporsi come attore drammatico – quest’anno era anche in Benvenuti a Marwen – facendo dimenticare la sua fama di comico. Timothée Chalamet si conferma, ruolo dopo ruolo, uno dei maggiori talenti in circolazione.
Il titolo arriva da una canzone omonima di John Lennon, quella in cui ha scritto «la vita è quello che ti capita mentre fai altri piani». L’ex Beatles l’aveva scritta per il figlio Sean nel 1980 e il testo è una specie di sintesi dei desideri di padre di David per il figlio Nick.
Beautiful Boy riesce a descrivere in modo verosimile la caduta nella droga, grazie anche allo sceneggiatore Luke Davies che ha avuto problemi di tossicodipendenza in passato. Non dà colpe, né alla famiglia – David è risposato, ha altri due figli, la madre è assorbita dal lavoro – né al ragazzo. La droga, semplicemente, succede.
Ci sono dei momenti che funzionano molto, come la fredda determinazione con cui il padre decide di smettere di credere alle ennesime bugie/promesse del figlio e quella paura orribile di vederlo come una minaccia per i suoi fratelli.
Quello che il film non riesce a fare è trovare il giusto equilibrio per raccontare la storia di padre e figlio.
La sequenza di cadute, risalite, fiducia tradita e preoccupazioni parentali diventa in fretta ripetitiva. Non manca una certa retorica nell’affrontare il discorso, da un lato con un’enfatizzazione stereotipata degli effetti delle droghe, dall’altra nei discorsi sull’importanza della volontà e della forza. Peccato perché si finisce in fretta per sprecare il materiale narrativo interessante e i due interpreti, oltre agli elementi di corredo come l’ottima colonna sonora strutturata su pezzi anni Novanta.
(Beautiful Boy, di Felix Van Groeningen, 2018, drammatico, 111’)
LA CRITICA
C’è una storia forte e autentica dietro a Beautiful Boy, ma alla fine rimane poco oltre all’interpretazione dei due protagonisti.
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