See more glass: L’Uomo Ghignante
Un percorso nella produzione breve di J.D. Salinger
di Davide Coltri / 3 ottobre 2019
Cade nel 2019 il centenario della nascita di Jerome David Salinger e, dopo decenni di speculazioni sull’esistenza di manoscritti segreti, si registra l’annuncio ufficiale della futura pubblicazione di opere inedite (le date non sono state ancora annunciate). La pacatezza con cui il figlio dell’autore parla dell’operazione fa ben sperare circa la sua genuinità: da queste parti si auspica che sarà l’occasione per guardare con più cura alla produzione breve dell’autore newyorkese, troppo spesso oscurata – con eccezioni, certo, tra cui almeno due meravigliosi racconti – dal successo mondiale e ingombrante del romanzo d’esordio Il giovane Holden (ormai proverbiali le 250.000 copie vendute ogni anno).
Un romanzo, nove racconti e quattro novelle raccolti in quattro libri usciti tra il 1951 e il 1963: è tutto ciò che Salinger scelse di affidare a un editore, opponendosi tanto ai tentativi di riesumare i racconti apparsi su riviste prima dell’esordio, quanto alle proposte degli interessati alla stampa della sua ultima novella, che occupa quasi interamente il numero del 19 giugno 1965 del New Yorker. Per quarantacinque anni, fino alla morte avvenuta nel gennaio del 2010, Salinger non pubblicò più nulla, scegliendo una vita da recluso sulla quale prosperano tutt’ora testimonianze, leggende e pettegolezzi di fan e biografi.
Negli articoli per Flanerí dei prossimi mesi proporrò un avvicinamento ai suoi racconti e alle novelle, soffermandomi su alcuni dei temi più cari all’autore: il valore e la potenza del narrare, l’autenticità artistica, il rapporto tra fratelli. Lo farò con tutta l’umiltà possibile, ricorrendo alla biografia solo dove strettamente necessario, d’accordo con Salinger quando giudicava il sé stesso-personaggio pubblico un ingombro tra l’opera e il lettore.
Mi auguro che questi miei articoli servano da invito a nuove letture, a riletture e a un avvicinamento a quanto di nuovo emergerà nei prossimi anni dagli archivi del Salinger Literary Trust.
Un’avvertenza: è probabile che ci siano spoiler, se questa parola ha un significato quando si parla di Salinger.
Prima puntata
L’Uomo Ghignante
Le opere successive a Il giovane Holden hanno un nucleo ben preciso: tutte le novelle e tre su nove dei racconti di Salinger seguono le vicende della famiglia Glass, e hanno come centro gravitazionale il maggiore dei sette fratelli: Seymour, che entra ed esce di scena nel giro di un racconto-capolavoro (Un giorno ideale per i pescibanana), non si manifesta nemmeno nella storia dedicata al giorno del suo matrimonio (Alzate l’architrave, carpentieri), incombe con la sua assenza su Franny, Zooey e su Seymour. Introduzione e ricompare poi, settenne, in Hapworth 16, 1924 (e sembra quasi uno scherzo).
Tra i sei racconti che esulano dai Glass (fa parte di questo gruppo il meraviglioso Per Esmé, con amore e squallore), ce n’è uno che spicca come la confidenza preziosa di un eccezionale evento privato: L’Uomo Ghignante, una storia ambiziosa e calibrata in ogni dettaglio.
La vicenda si sviluppa entro coordinate temporali e spaziali immediatamente autobiografiche: il protagonista, che si dichiara novenne nel 1928 (Salinger è nato nel 1919), racconta in prima persona come quell’anno, a cadenza settimanale, un gruppetto di bambini newyorkesi venisse raccolto su un autobus e accompagnato a giocare a baseball da un certo John Gedsudski, detto il Capo, che con una singolare capacità affabulatoria li intratteneva per mesi narrando a puntate le vicende dell’Uomo Ghignante.
La storia dell’Uomo Ghignante, riassunta dal protagonista, è ricca di colpi di scena da feuilleton, improbabilissima, decisamente antieroica, a tratti tragica, a tratti esilarante. L’Uomo Ghignante e le sue gesta diventano presto il centro dell’ingenua mitopoiesi dei bambini (detti i Comanche), il perno di un senso di appartenenza in cui convivono elezione individuale e spirito di corpo («mi consideravo non solo l’unico discendente diretto dell’Uomo Ghignante ma il suo unico erede legittimo vivente», «c’erano, nel Club, venticinque Comanche, tutti e venticinque legittimi eredi viventi dell’Uomo Ghignante»). Aiutato da «uno svelto cane lupo di nome Ala Nera, un simpatico nano di nome Omba, un gigantesco mongolo di nome Hong, […] e una incantevole fanciulla eurasiatica», col volto sfigurato protetto da una garza di petali di papavero, l’Uomo Ghignante è la trasposizione epica del Capo, con cui condivide alcuni tratti decisivi: l’aspetto sgradevole, la leadership, la destrezza, le umili origini, la confidenza di esseri “altri”. Salinger orchestra continui rimandi, a volte afferrabili, a volte più oscuri (e proprio per questo più potenti) tra le uscite del Capo e dei suoi Comanche e le sfide dell’Uomo Ghignante ai suoi nemici, e l’effetto sui bambini che ascoltano la storia e allo stesso tempo vivono la routine delle partite è di solida rassicurazione: anche gli individui più improbabili possono essere eroi, gli eroi vincono sempre, e le loro gesta non hanno fine.
Ma un giorno le norme non scritte della fratellanza Comanche sono infrante dall’irruzione sull’autobus di Mary Hudson, la ragazza del Capo. Inizialmente restii ad accettarla, i bambini infine ne scoprono le improbabili e inaspettate doti atletiche e ricompongono la frattura all’interno dei confini imposti dal gioco (il baseball). Ma la crisi si ripresenta in una forma inconciliabile: il rapporto tra il Capo e Mary si incrina, i due si lasciano. Quel giorno, sulla strada del ritorno, il Capo racconta ai Comanche l’ennesimo, ultimo episodio nella saga dell’Uomo Ghignante. Accade nel racconto ciò che nessuno dei Comanche aveva mai lontanamente creduto possibile. Nell’autobus ammutolito un bambino piange, il protagonista trema. Non c’è nulla da fare, non ci sarà un seguito. La realtà ha fatto irruzione nell’improbabile vicenda dell’Uomo Ghignante, ponendovi fine.
A questo punto per l’Uomo Ghignante e i suoi amici, e una serie di domande insopprimibili: se Mary Hudson non fosse entrata nella vita del Capo, come sarebbe proseguita la fabula? Era possibile, era giusto, era plausibile che Mary si trattenesse ai margini? La fine delle vicende dell’Uomo Ghignante coincide con la fine dell’infanzia?
Nelle ultime righe il narratore, sceso dall’autobus, vede un pezzo di carta velina rossa che richiama la garza d’oppio con cui l’Uomo Ghignante usava schermirsi, e che fa emergere, in chiusura, un punto di vista inatteso e cruciale: il racconto non parla solo della violenza distruttiva della realtà sul mondo ancora tutto intero dell’infanzia e sui suoi fragili riti.
Il pezzo di carta velina rossa è la maschera dell’Uomo Ghignante, che emerge dalla mondo fantastico del Capo e che irrompe, incontenibile, nella vita del protagonista, alterandola per sempre («i denti mi battevano incontrollabilmente»). Il foglio trascina nella realtà la potenza propria delle storie che ci sconvolgono, da cui non si può tornare indietro, che ci fanno vedere il mondo diversamente. L’Uomo Ghignante è un omaggio alla forza eversiva del narrare, e parla a tutti perché chiunque si faccia rapire da una storia – udita, letta, osservata – sale sull’autobus del Capo e prova le stesse emozioni dei Comanche.
Salinger costruisce il racconto secondo un’architettura complessa ed elegantissima di rapporti tra il dentro e il fuori, il maschile e il femminile, realtà e finzione, infanzia e maturità, bello e brutto. Eppure, come capita sempre leggendo le storie dell’autore newyorkese, si ha la sensazione che qualcosa di fondamentale ci sfugga, o meglio: che nessuna analisi testuale riuscirà mai a svelare interamente il senso profondo del racconto, che il lettore sia chiamato ad affrontarlo tramite una facoltà o una pratica diversa.
Chiudo il libro, proprio come Franny posa la cornetta alla fine della novella Zooey. Fino a quando, dal profondo del suo mistero, l’Uomo Ghignante mi chiamerà a farsi leggere ancora, ridendo del mio ennesimo tentativo di razionalizzare la sua storia.
Ma ora sta a voi, Comanche.
(“L’uomo Ghignante”, in Nove racconti, J.D. Salinger, Einaudi, 1962, pp. 234, euro 12, articolo di Davide Coltri)
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