Quel che resta del novecento
Su “Gli dei notturni” di Danilo Soscia
di Emanuele Pon / 2 marzo 2020
Misurarsi con il Novecento, tracciarne uno schema riassuntivo, è pratica consolidata, probabilmente perché si ha di fronte un secolo tra i più densi di “storia ufficiale”. Cento anni frastagliati, spesso polarizzati tra opposti inconciliabili: per esempio, quella strana dicotomia tra il Novecento come secolo “di massa”, fatto di movimenti globali, oppure come periodo caratterizzato dall’emergere di personalità forti, aggreganti, indimenticabili. Venerate come dei. Ma che cosa succede se questi dei si trasformano all’improvviso in figure fragili, votate a una tormentosa interiorità piuttosto che alla superficialità della massificazione di sé? Ecco il punto di partenza per Gli dei notturni di Danilo Soscia (minimum fax, 2020): una raccolta di quaranta brevi racconti che vengono definiti “ipnografie” o, per citare il sottotitolo, Vite sognate del ventesimo secolo.
Prendendo a prestito le parole di uno degli dei notturni, Ezra Pound, si possono cogliere l’ambizione, e forse il senso generale dell’intera operazione di Soscia: «Il racconto degli incubi non conservava niente della loro sconnessione originaria. […] Dovreste tornare alla semplicità degli interpreti antichi, li rimproverai una volta. Costoro avevano fama maggiore dei poeti, poiché avevano mutato in un’arte la capacità di tradurre la lingua confusa degli dei notturni».
Soscia assume la postura di un interprete, un tramite, o meglio, una sorta di medium per una seduta spiritica di rievocazione collettiva dall’oblio. Gli spiriti in questione, tuttavia, nell’oblio in realtà non sono mai caduti: si tratta, infatti, di personalità monolitiche del Novecento, dalla politica allo sport, dalla letteratura alla musica.
Così, gli spettri di Buffalo Bill e Pasolini, di Akira Kurosawa e di Elsa Morante, di Janis Joplin e di Aldo Moro sono riportati in vita, o meglio, della loro vita sono scandagliati gli angoli morti, le profondità interiori. Soscia dà voce agli abissi dell’esistenza inconscia di queste figure così eterogenee, tratteggiandone la vita sognata; non necessariamente una vita alternativa, ma senz’altro una prospettiva altra, dal basso più che dalla superficie. I percorsi dei personaggi sono, in gran parte, quelli che abbiamo imparato a conoscere; i loro cammini continuano a portare nella direzione che ci aspetteremmo, e anzi, spesso la loro conoscenza è data per scontata: l’esperimento dell’autore sta nel mostrarle, quelle stesse strade, dal fondo dei tombini di cui sono costellate. La luce filtra attraverso fori e feritoie, ma l’aria di fogna rimane.
Si può dire, allora, che il vero protagonista di ogni racconto non sia tanto il personaggio che agisce, quanto piuttosto lo scenario entro cui il personaggio si muove: emerge, in questo modo, una sorta di paesaggio onirico collettivo, all’interno del quale la Milano di Alda Merini, la Berlino di Marlene Dietrich e la Rio di Garrincha trascolorano e si fondono fino a diventare lo stesso luogo. Ciò che è importante è che lo spazio, proprio come la prospettiva, sia altro, concedendo così alle figure che lo abitano la possibilità di esprimere la loro interiorità visionaria e ingarbugliata. Viene in mente il Bardo/Aldilà descritto da George Saunders in Lincoln nel Bardo (Feltrinelli, 2017); oppure, specialmente quando la narrazione è costruita su più livelli – ossia quando Soscia racconta/sogna di un personaggio che racconta/sogna a sua volta –, lo spazio onirico grezzo di cui Christopher Nolan parla per descrivere il suo Limbo in Inception.
È, in definitiva, come se Soscia riunisse tutti i suoi personaggi, costringendoli a muoversi in uno spazio aggregante e senza tempo, simile alla haunted ballroom di Shining: in questo modo si crea per quei fantasmi una seconda vita, basata precipuamente sul loro essere spettri.
Così, forse proprio secondo le intenzioni dell’autore, Gli dei notturni produce domande, più che risposte. Che cosa è rimasto del Novecento? C’è qualcosa – o qualcuno – a cui vale la pena accostarsi ancora per una riscoperta? Ha senso, per la letteratura, rivolgersi per l’ennesima volta al passato, in un tempo che sembra aver perso la capacità stessa di pensare il futuro? Una carrellata come questa non corre anche il rischio di risolversi – suo malgrado – in enumerazione squisitamente postmoderna?
Le risposte variano a seconda del pubblico che si accosta alla lettura, ma si può provare a tracciare qualche linea generale.
Gli dei notturni pare soffrire di una contraddizione strutturale. Nel presentare la sua carovana di personaggi, Soscia dà l’impressione di volerli mettere in contatto l’uno con l’altro, come fossero le tante sfaccettature della stessa sfera: le quaranta “ipnografie” scorrono una dopo l’altra, richiamandosi e integrandosi a vicenda, fino a formare un tessuto omogeneo; specialmente dal punto di vista dello stile, che appare, nonostante l’eterogeneità delle figure, uniforme nel suo essere votato a una scrittura eterea, onirica.
Questa sorta di calligrafia del sogno è potente ed efficace di per sé, pur risultando talora ridondante, a volte compiaciuta, a causa dell’accumulo visionario eccessivo, che rischia di far perdere di vista al lettore le distanze tra un personaggio e l’altro, le loro specificità. D’altro canto, Soscia non rinuncia al suo approccio filologico alla materia, proponendo in calce ai suoi racconti una nota che chiarisce i singoli percorsi dei personaggi, ma che suona, in chiusura, quasi come una rettifica.
Se da un lato, dunque, si ha un atteggiamento ancora molto postmoderno (e novecentesco!) nei confronti della materia trattata, dall’altro è interessante notare come il libro offra la risposta migliore all’interrogativo forse più utile per i nostri giorni, che vale la pena ribadire: che cosa resta del Novecento?
Non i personaggi: di loro, certe volte, resta soltanto un nome. Essi sfumano l’uno nell’altro, giacché il sogno è territorio comune, fatto di archetipi collettivi, che tu sia Joseph Mengele o Rudol’f Nureev.
Non lo spazio, non il tempo: i personaggi abitano in città che sono sempre lo stesso luogo, in un momento che è l’eternità, dove la Storia filtra da schermi e spiragli, ma alla quale i personaggi stessi assistono solo da spettatori.
Del Novecento resta un limbo fatto di visioni, incubi e macerie, che Soscia ha trasposto sulla pagina con uno stile unitario; resta questo tono generale: lo stile, la voce del Novecento, con la sua eco.
Tutto il resto sfuma, e forse è meglio così, se diamo ascolto all’ultimo dio notturno, Virginia Woolf, quando pare rivolgersi a noi lettori – ma forse anche allo stesso Soscia:
«Chi sei tu, che vieni a chiedermi conto dei sogni che faccio, che pretendi io li riduca in figura come farfalle infilzate su uno spillo o santi asessuati sui vetri di una chiesa. […] Perché vuoi che io mi svegli? Perché tra i tanti di cui potevi profanare il sonno hai scelto me? L’ordine del caso mi ha uccisa mille volte, e l’esistenza con i suoi culti è una festa cui non voglio partecipare».
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