Mangiare e conoscere
Su “Calafiore” di Arturo Belluardo
di Riccardo Romagnoli / 10 marzo 2020
Due frasi possono sintetizzare l’intero romanzo di Arturo Belluardo, Calafiore (Nutrimenti, 2019): «Io sono bocca» e «Se c’è una cosa che so fare è mangiare».
La storia è quella di Giuseppe Calafiore, un uomo che vive la sua vita nel cibo, nel grasso, nel mangiare. Calafiore è «l’archetipo di questo schifo di società marcia». Calafiore ha reso la fase orale uno stato permanente del suo essere: attraverso la bocca mangia e conosce e gode. L’oralità è però intesa anche come parola parlata, come bocca che dice e racconta: «Se non racconto che senso ha? Che senso ha ogni cosa se non viene raccontata?»
Il romanzo si apre con Calafiore rapito, nelle mani di Marta e Federico. Sono ignoti i motivi che hanno portato al rapimento. Li si scoprirà lentamente nel corso di una narrazione che si svolge lungo tre diversi livelli, ciascuno dei quali contrassegnato da un dispositivo grafico di riconoscimento.
Il primo livello è il racconto che Calafiore fa della sua vita. È Marta, una dei carcerieri, che introduce il tema di Sherazade: «Facciamo come Sherazade nelle Mille e una notte, che alla fine, se le tue storie ci piacciono, ti salvi la vita». I capitoli sono numerati dall’uno al quattordici.
Il secondo livello comprende i racconti che Marta e Federico fanno di alcune vicende che hanno vissuto e che si concludono col rapimento di Calafiore. Questi capitoli non hanno numero ma solo un titolo che li identifica.
Il terzo livello è l’insieme dei capitoli che descrivono il tempo presente, che è quello dell’avvenuto rapimento e degli sviluppi che ne seguiranno. Tali capitoli non hanno né numero né titolo.
La voce narrante, però, è sempre un io (che sia Calafiore, Marta o Federico) a riprova di quella scrittura “orale” che si vuole ricreare attraverso (paradossalmente) la scrittura. La bocca è stata il tramite del peccato (Adamo ed Eva mangiano la mela) e la bocca dovrà essere la salvezza dal peccato (mangiare non solo e non tanto, ma divorare esseri umani).
Per capire il testo di Belluardo occorre affrontare la questione più forte e scandalosa che fa da colonna vertebrale e da vero motivo-guida: il romanzo sembra parlare di peso e sovrappeso, di cibo e solitudine, di discriminazione e dolore, di sentimenti e di frustrazioni. E certo parla di tutto ciò. Calafiore è in lotta contro il mondo e le persone. È colto e ha studiato. Conosce Parmenide e Melville. Ama la compagna Serena e la figlia Giada. Subisce tradimenti e scherni. A causa della sua “ciccia” è abbandonato e umiliato.
Belluardo, però, fin da subito abbandona un realismo di facile psicologia e si proietta in un fantasmagorico circo umorale, psichedelico, folle, ipertrofico. L’esagerazione, che è nel corpo di Calafiore, è nel romanzo che spinge ai limiti e li supera.
Cannibalismo. Un’apertura, a latere, ci porta a cogliere assonanze con le sequenze del film Porcile di Pasolini dove, tra l’altro, si narra di un gruppo di uomini e donne che, nel 1500, si dedicano a pratiche cannibaliche in nome della libertà e della sovversione.
Calafiore, Marta e Federico appartengono a una schiera di avventurieri e di eroi che hanno scoperto qual è l’essenza del sistema all’interno del quale viviamo, e hanno trovato il modo per scardinarlo. «Tu sei il nostro Dio, Calafiore», gli dicono Marta e Federico. È Dio perché è stato costretto a ingozzarsi e a diventare grasso e poi, in quanto grasso, è stato disprezzato e preso in giro.
È la contraddizione della nostra società che costringe al male e poi condanna chi il male lo ha compiuto, come se ci fosse stata libera scelta. Allora la ribellione nasce dall’assumere su di sé la contraddizione e dal farla esplodere. Il cannibalismo diviene un assurdo provocatorio irriverente mezzo di lotta e di resistenza.
Le coordinate entro cui si articola la storia di Calafiore e dei suoi nemici\amici sono sempre nella dimensione giocosa e carnevalesca, dove l’orrido e il ripugnante servono a épater le bourgeois e a caricare, oltre il verosimile, una irrefrenabile energia vitale che spezza vincoli e legami.
Un’altra associazione filmica (più ovvia) è con La grande bouffe di Ferreri. Se in comune c’è l’analisi sulle funzioni sociali e politiche che ha il cibo, fondamentalmente diverso è l’esito finale: in Ferreri la morte e la distruzione, in Belluardo la morte e la distruzione unite a una rinascita ebbra di vita e di gioia.
Calafiore è un bel romanzo che ha il suo punto di forza nell’originalità della storia e nella cura dello stile. Forse qualche svolazzo linguistico l’autore lo poteva risparmiare («Erano due vortici senza abisso», «La luna era nuovamente impigliata tra gli scogli», «Il sangue urlava», per portare degli esempi). Ma si tratta di minuzie.
È un romanzo pirotecnico e spiritoso, in cui gli eccessi sono artificio e intelligente ilarità e in cui un riso e una fame pantagruelici ci salvano, ci fanno capire, ci liberano.
(Arturo Belluardo, Calafiore, Nutrimenti, 2019, 208 pp., euro 17, articolo di Riccardo Romagnoli)
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