Anime e mura: la poetica di Shirley Jackson
di Elisa Bisson / 26 marzo 2020
Giornalista, saggista e soprattutto scrittrice: Shirley Jackson è stata autrice dei più iconici racconti horror del ventunesimo secolo, in grado di lasciare un segno nelle menti tormentate dei suoi lettori. Tra di esse spicca quella di Stephen King che non manca di annoverare la Jackson tra i suoi più mostruosi maestri. Eppure il suo contributo non è ancora stato pienamente riconosciuto o, quantomeno, non le è stato ancora accreditato il successo che ha tutt’oggi il suo allievo.
Opera di punta, rilanciata anche dall’omonima serie televisiva Netflix (IMDb 2018), è di certo L’Incubo di Hill House (Adelphi, 2004) edito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1959. Una perla meno riconosciuta è inoltre Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi 2009) romanzo dall’aura gotica del 1962. L’elemento comune delle due opere è il morboso legame tra i personaggi e le sinistre, spettrali, immobili case che li ospitano.
Il tema della vita domestica è il perno su cui fluttua Abbiamo sempre vissuto nel castello: due sorelle orfane e uno zio disabile abitano nella vecchia e maestosa residenza di famiglia, teatro di drammatici omicidi. Tutti i membri della famiglia dei personaggi sono stati infatti avvelenati nella stessa casa con dell’arsenico nello zucchero: l’omicidio sembra infine ricadere sulle spalle della figlia maggiore, Constance, che vive pertanto reclusa insieme alla sorella minore Mary Kathrine. Le mura domestiche sembrano, dalle descrizioni, rimaste cosparse del passato, curate maniacalmente dalle due protagoniste in modo da renderle immuni dal tempo: ogni oggetto viene preservato e ogni usanza familiare viene costantemente rivissuta, ripercorsa all’infinito in un tetro sipario giornaliero costellato da battute sempre uguali scambiate tra i tre abitanti.
«Dentro però il salotto era una meraviglia. […] Constance saliva su una scala per lavare i vetri fino in cima, insieme spolveravamo le statuine di porcellana Meissen sulla ciminiera […] lustravamo i pavimenti e rattoppavamo i piccoli strappi nel broccato rosa dei divani e delle poltrone. “Non sopporto di vedere in disordine il nostro salotto” diceva sempre mamma […] e adesso invece eravamo noi a mantenerlo lustro e scintillante».
Fa da sfondo la casa che, rimasta com’era dal tempo dell’assassinio, diventa la sacra reliquia del passato, venerabile e soffocante, ma allo stesso tempo garante della tiepida immobilità che rappresenta. Fornisce allo stesso tempo un rifugio contro un presente demonizzato che sembra averli rigettati e rifiutati. L’ossessione per le porcellane, il broccato, i letti, le stanze, i barattoli da conserva impilati in cantina, persiste anche dopo la distruzione della casa da parte di un incendio doloso: senza tetto e per metà divorata e annerita dalle fiamme, la magione Blackwood diventa il nido in cui ripararsi contro l’esterno, anche dopo le incursioni dei curiosi e odiosi paesani.
«Noi rimarremo qui insieme per sempre, vero Constance?».
«Tu vuoi restare qui per sempre Merricat?».
«Dove potremmo andare, se no?», le chiesi, «c’è un posto migliore per noi? Chi ci vuole, là fuori? Il mondo è pieno di persone orribili».
Con le sbarre alle finestre, le tende tirate e il cancello chiuso con il lucchetto, la recita interrotta dall’incendio riprende ancora più serrata e opprimente, le due sorelle continuano decise a portare avanti le tradizioni di famiglia a colpi di pranzi e cene, battute e silenzi, tra cocci e distruzione. La sacra routine diventa un ulteriore motivo di elaborazione del lutto, rivissuto dopo la vandalizzazione della loro dimora. Intanto, fuori dalla casa gli esterni continuano ad affacciarsi desiderosi di vedere le sorelle assassine, inventando storielle che diventano poi leggende per spaventare i bambini e degenerano poi in offerte rituali (per l’appunto cestini con vivande e manicaretti) per propiziarsi quei due invisibili spiriti abitanti del relitto.
In questo modo, senza alcun accenno di paranormale, Shirley Jackson ci descrive la genesi di una storia di fantasmi che nulla ha di realmente spaventoso se non l’ossessivo ripetersi del passato che avviene tra le mura della casa collassata.
Con lo stesso meccanismo agiscono i più tangibili spettri che vivono in Hill House: il male, il malsano è insito nelle pareti, nei soffitti, nelle stanze irregolari della casa solitaria e magnifica. I rumori, gli scricchiolii, i cani che abbaiano e i passi nel corridoio portano all’isteria gli occasionali ospiti della dimora, facendo emergere le paure più profonde e i loro traumi rendendoli così i veri mostri da temere: ci si trova infatti facilmente ad inorridire per le azioni della turbata protagonista piuttosto che per i topoi più scontati del genere, che qui diventano i rumori sinistri delle nostre menti cigolanti.
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà.[…] Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola».
Altrettanto rumorosa doveva essere la mente della stessa autrice che più volte ha raccontato della deprimente vita casalinga che conduceva, prigioniera di un matrimonio infelice che l’aveva costretta a rinchiudersi e infestare le tristi pareti della sua casa: è naturale perciò domandarsi quanto gli incubi della Jackson siano stati alle origini di quelli di molti lettori (Esquire 2018)
Le mura finiscono dunque per far emergere irrimediabilmente fantasmi di traumi non elaborati che trovano il nome di paurose visioni o vecchi miti. Sono i personaggi stessi a creare i propri spettri e a lasciare che infettino queste mura silenti e immobili che diventano scenario di una ghost story, condannano e allo stesso tempo proteggono dall’esterno, unico vero teatro degli orrori rispetto al quale forse sono preferibili le case infestate.
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