Ritrovarsi senza orizzonti

“Il dono oscuro” di John M. Hull

di / 2 aprile 2020

copertina di hull il dono oscuro adelphi flaneri

«Ora non vedo davvero più niente. Non distinguo il giorno dalla notte. Posso guardare fisso il sole senza avvertire il minimo bagliore». John M. Hull è cieco da tre anni quando scrive queste righe, o meglio, quando le racconta ad alta voce, nel tentativo di riempire le tenebre con il suono. È per questo, forse, che il suo è un libro diverso da qualunque altro: Il dono oscuro (Adelphi, 2019), infatti, è la raccolta diacronica di pensieri e riflessioni sulla cecità, sul buio soffocante in cui Hull è precipitato, improvvisamente, a quarant’anni. Frammenti, minuzie, accenni di vita in un libro privo di un inizio e persino di una conclusione, come ci avverte Oliver Sacks nella prefazione, perché «la cecità non ha una fine».

Sprofondare nell’oscurità significa vivere altrove, occupare non-luoghi in cui lo spazio e il tempo sono continuamente ridefiniti. Nella vita di Hull esiste un prima, fatto di cose perdute e ritrovate con un gesto; di belle giornate, in cui quell’aggettivo, belle, aveva ancora un senso condiviso; di feste passate a guardare i propri figli scartare regali e sentirsi parte della loro felicità. Esiste, però, un dopo, oscuro e inimmaginabile, in cui «il vento ha preso il posto del sole» e perdersi significa non avere riferimenti o direzioni.

Tornano alla mente le parole di Marguerite Duras quando nel suo romanzo più celebre, L’amante, cerca di definire quel sentimento, ricambiato, di estraneità alle cose: «Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea. Ci sono vaste zone dove sembra ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c’era nessuno». Ebbene nel mondo di Hull non esistono più linee, né orizzonti, o almeno non quelli di prima. Chi vede cerca di aiutarlo spiegandogli la strada, usando espressioni come qui e , non sapendo che le parole, contaminate dal buio, non hanno più lo stesso significato. E persino salutare il figlio diventa un’esperienza nuova: all’entrata di scuola non c’è un unico ciao, ma una serie ripetuta, finché la lontananza indebolisce la voce, senza spezzarla, cosicché nessuno dei due provi il dispiacere dell’abbandono, della sparizione improvvisa.

«Oggi non riuscivo a ricordarmi da che parte è rivolto il tre, scritto in numeri arabi. Ho dovuto tracciarlo nell’aria con il dito»: basterebbe questo a far capire quanto sia profondo l’abisso. Eppure in Il dono oscuro non c’è nessuna vittima, perché lo scopo di Hull non è raccontare il dolore (che pure arriva con una chiarezza e un controllo disarmanti), ma comprendere cosa sia la cecità, trovare un senso a ciò che è accaduto, osservare la perdita. Il buio è un tunnel senza fine: si precipita altrove, forse negli abissi dell’anima. Scompare il ricordo delle persone, del loro aspetto, poi rapidamente ci si dimentica del proprio viso: ci si aggrappa a un’immagine, fissa, immobile, magari una foto di tanti anni prima, che la mente conserva ancora da qualche parte. Finché scompare anche quella: non si ha più memoria neppure della luce. Il cervello annulla il dolore, si ripiega su sé stesso, comincia a vivere un’altra vita: senza gli ingombri esterni Hull acquista maggiore lucidità, lavora intensamente e con precisione. La cecità appare allora, davvero, come un dono oscuro, non richiesto, non cercato e, soprattutto, non gradito: accettarlo è la parte difficile. Ma il compito più gravoso, forse, è cancellare ogni cosa, rinunciare a ciò che prima sembrava essenziale. Bisogna ricostruire la propria identità, il mondo, le distanze, gli affetti: non è qualcosa di straordinario o coraggioso, ci avverte Hull, bensì una necessità.

 

(John M. Hull, Il dono oscuro, Adelphi, 2019, 221 pp., euro 20,00, articolo di Elisa Carrara)
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