Gli spazi nella prosa di Kerouac
Itinerari e tracce dell’autore di “Sulla strada”
di Giusy Esposito / 24 giugno 2020
Quando si parla di Jack Kerouac ci si ritrova sempre ad affrontare la sua strada, la sua vita alla ricerca della libertà, la creazione della prosa libera spontanea, la sua America. Jack Kerouac non sarebbe il Kerouac che conosciamo oggi se non fosse nato in America e se non avesse vissuto viaggiando liberamente.
Se non avesse attraversato il Paese e vissuto senza meta, ci mancherebbe un pezzo importante della storia della letteratura americana, quello della Beat Generation. Dove Beat, per Kerouac, non sta superficialmente per battito, beat sta per battuto come battuto a macchina e, nella fase finale della sua vita, ha assunto il vero significato, quello di Beatitudine: «C’è una beatitudine in cui certamente bisogna credere, ed è che ogni cosa dimora nell’estasi eterna, ora e per sempre».
È un Kerouac che non si è mai fermato e che nel suo lungo viaggio, alla ricerca del suo dio, dell’eternità dorata e del sogno vuoto dell’universo, ha portato il proprio spirito. Spirito tramutato nella sua scrittura dalla prosa spontanea. Se Kerouac fosse nato a Roma, a Parigi o a Sidney, oggi non ci avrebbe consegnato la sua opera così com’è. Perché è dai luoghi in cui viviamo e dal modo in cui viviamo ogni giorno la vita, che formiamo il nostro essere e così nasce la nostra arte. E si crea la letteratura. Il modus vivendi che modifica le sensibilità umane, agisce anche attraverso gli spazi che abitiamo e che influenzano il nostro modo di sentire. L’America è Kerouac e Kerouac è l’America, a prescindere dal capolavoro On the road. I luoghi di Kerouac fanno parte della sua arte perché lo hanno reso libero e ha trasportato la sua libertà in giro per il mondo e, per fortuna, lo fa ancora oggi attraverso i suoi libri.
Se non si riesce a concepire la giusta rilevanza che hanno gli spazi nella letteratura, allora sarebbe difficile immaginare le avventure di Sal e Dean in un qualsiasi posto del mondo. Non incontreremmo gli stessi personaggi, perché tutti i suoi personaggi sono caratterizzati da infinite sfaccettature, tipiche di chi scrive i dettagli che vede; rispecchiano il viaggiatore, l’esploratore, le storie che gli raccontano i vagabondi. Non incontreremmo i campi di Frisco, né i crocevia «dove i piccoli agglomerati di case ci balzavano incontro dall’oscurità, e superavamo lunghe file di braccianti e cow-boy che oziavano nella notte». È la concezione dello spazio come spazio sempre aperto, sempre in moto e in continuo cambiamento, come luogo della libertà a rendere tale la scrittura letteralmente libera di Kerouac: «A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno Oooooh!». È una scrittura danzante, dove la danza è tutto. Per dirla alla Nietzsche «Crederei solo a un dio che sapesse danzare» e Kerouac ci ha creduto e l’ha cercato per tutta la vita.
La tanto discussa superficialità della cultura americana, la filosofia Here Now, le lunghe strade desolate, diventano agognata leggerezza nella prosa e nella vita kerouachiana. Kerouac insegna a non etichettare, a non giudicare e ad andare sempre incontro al diverso, inteso come Altro. La cultura americana lo ha formato e reso tale. La conoscenza del popolo, dello squallore, dei campi di cotone, del vivere alla giornata, delle corse in macchina e dei ragazzi del riformatorio, hanno contribuito alla formazione della sua visione poetica. Provando a rileggere i suoi scritti, la domanda che sorge spontanea è: quanto i luoghi di Kerouac hanno influenzato la sua scrittura?
La ragazza messicana (The mexican girl), poi incluso in forma leggermente modificata nel romanzo On the Road (Sulla strada), era stato precedentemente pubblicato come racconto sulla Paris Review. È già dal lessico adoperato nella prima pagina che percepiamo lo spazio in cui stiamo entrando. Ripete il termine «autobus» per quattro volte in una sola pagina, risuonano a ritmo quasi ritondante i nomi delle città di Los Angeles e New York, usa verbi quali «aspettare», sostare», «andare», «partire», «viaggiare». Si apre così, con l’attesa di una partenza su un autobus, sulla strada, con le valigie, le sigarette, la solitudine. È la casa da cui proviene l’autore. È interessante notare come cambi l’uso della persona, per tutta la prima parte il protagonista parla al singolare, «la mia vita», «aspettavo», «partivo». Poi nella parte successiva si trasforma in una prima persona plurale, perché include anche la ragazza messicana, ma si limita a poco, perché continua a parlare della sua di vita. E sul finale torna al singolare, alla sua solitudine, al suo essere sbattuto, che fa la valigia, e ancora una volta parte da solo verso una nuova destinazione.
«Piegai la testa e l’osservai. Be’, alla buon’ora, ero di nuovo in cammino».
«Skidilibee-la-bee you, -oo, -e bop she bam».
Gli spazi sono tali in quanto intesi non esclusivamente come entità geometriche, ma come spazi reali che racchiudono tutte le sfaccettature del preciso momento in cui si vivono: storiche, sociali, culturali, artistiche o musicali. Keroauc vive l’America delle tavole calde, degli autostop e dei ritmi jazz che diventano in lui i veri ritmi del viaggio. La sua scrittura risente del sound di Parker o di Holiday. La sua spontaneità creativa incontra la jam session, trovando una perfetta fusione nella sua prosa libera spontanea. Il suo è un modo di scrivere libero e adatto a raccontare le sue storie di libertà, senza preoccuparsi dell’uso corretto delle parole, perché le parole vanno da sole. Vanno da sole anche quando compone il famoso rotolo di On the road, il celebre dattiloscritto lungo 36 metri, contenente la prima stesura del romanzo. Non ha interruzioni di paragrafo, lo compose in meno di 20 giorni nel 1951, senza fermarsi. Concepito come una vera e propria maratona, scandita dal ritmo bepop e jazz che lo ispiravano nella sua scrittura sincopata. È il concetto di improvvisazione che riesce a trasportare nella sua prosa e a renderlo diverso, l’improvvisazione è una sorta di sentimento che appartiene a pochi, a chi sa vivere per strada, a chi raggiunge l’estasi durante un concerto jazz.
Oggi esistono veri e propri itinerari sulle tracce di Kerouac, quelle di Sal che partiva da Paterson (New Jersey), fino alla sua amata metropoli newyorkese (protagonista del suo primo romanzo, La città e la metropoli, in cui i protagonisti sono destinati a perdersi nella grande città), per la volta della sua Frisco (San Francisco), attraversando i campi del Nevada, la città di Denver, grande spazio emotivo della sua esistenza, la terra dorata di Sacramento. Per poi ripartire da San Francisco, Indianapolis, Ohio, Pittsburg, perché sapeva «che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla». Si ritorna all’estasi e all’eternità dorata. Ed è tutto spontaneamente e perfettamente collegato, perché alla fine gli spazi sono la scrittura, le immagini sono la scrittura, la vita è la scrittura e tutto è un “Sacro vuoto”. Perché «le parole, le immagini e i sogni sono le dita della falsa immaginazione che indicano la realtà del Sacro Vuoto – ma le mie parole sono ancora molte e le mie immagini procedono verso il Sacro Vuoto come una strada che ha una fine. È la STRADA DEL SACRO VUOTO questo scrivere, questa vita, quest’immagine di rimpianti».
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