O capitano, mio capitano!

“L’uomo di latta” di Sarah Winman

di / 10 marzo 2021

copertina di L'uomo di latta

Capita ancora di bere un bicchiere di vino con un amico che ti suggerisce di leggere un romanzo che a lui è piaciuto parecchio. Poi, prima che le regole Covid ti costringano a tornare velocemente a casa, gli prometti di leggerlo e di dirgli che ne pensi. Il romanzo è di Sarah Winman, il titolo è L’uomo di latta, per la traduzione di Marco Rossari, Mondadori l’editore. In poco meno di 170 pagine, Winman riesce a raccontare un intero mondo di «libertà. Possibilità. Bellezza», di amore e amicizia, ma anche di struggimento, di occasioni perse, di tempo irrimediabilmente fuggito. Inoltre è un romanzo che contiene tantissima musica, che andrebbe ascoltata mentre si legge, da David Bowie a Donna Summer, per arrivare agli Oasis, solo per citarne alcuni.

L’uomo di latta si apre con un prologo, per poi proseguire con due parti distinte fra loro. Nel prologo leggiamo di una ribellione, quella di Dora nei confronti del marito Leonard, durante una riffa al centro ricreativo di Cawley, Oxford, 1950. Dora vince quella riffa e può scegliere tra un whisky d’annata, che farebbe la felicità del marito, o una copia dei girasoli di Van Gogh. Nonostante Leonard le gridi di prendere lo scotch, lei afferra il quadro; così quello «fu il suo primo gesto di ribellione. Come tagliarsi un orecchio. E lo fece in pubblico». Il quadro, i girasoli e Van Gogh diventano il fil rouge che accompagna l’intera narrazione.

Nella prima parte si salta al 1996, il protagonista è Ellis, il figlio di Dora, morta quando lui aveva solo dodici anni. Quel lutto, ovviamente, è un punto di svolta nella vita di Ellis, è la fine della sua infanzia. Infatti se fino ad allora, sostenuto dalla madre, sognava di diventare un pittore, con quella riproduzione di Van Gogh a campeggiare sulla parete della ribellione di Dora, ora si ritrova da solo col padre che gli intima la sera stessa di ritirarsi dagli studi e a mettersi a lavorare. Qui compare Michael, dodicenne come Ellis, suo amico – anzi migliore amico. È lui il primo a lenire il dolore di Ellis, in un’amicizia tanto forte da sfociare in un vero amore adolescenziale. Si attraversa così l’Inghilterra industriale degli anni Sessanta poi della crisi degli anni Settanta, infine del thatcherismo.

Al presente della narrazione Ellis cerca di rimettere a posto i tasselli, ora che anche lui è vedovo e ha quasi cinquant’anni. Lavora nella fabbrica automobilistica di Cawley, e la sua mansione è di verniciatore – quasi un contrappasso del suo desiderio di diventare pittore. La sua è stata una vita di dolori, di sogni e amore repressi, è sopravvissuto creandosi una corazza – da qui, e non solo, L’uomo di latta – che lo ha condotto a una continua rimozione. Ma una sera, mentre torna dal lavoro in bicicletta, viene investito. Non è niente di grave, ma l’incidente è il clic che covava da tempo. Si licenzia dalla fabbrica e prova a rimettere in piedi la vita, quella vita che sognava da ragazzino. Per prima cosa torna alla casa paterna e chiede di riavere il famoso quadro di sua madre, che Leonard aveva provveduto subito a far sparire alla morte della moglie. Appena lo rià fra le mani lo osserva e pensa che «l’originale era stato dipinto da uno degli uomini più soli al mondo», come adesso lo è lui.

Ellis si chiede dove siano «finiti gli anni», il tempo scivolato via: i tredici anni d’amore con Annie, l’amicizia con Michael. Prova per la prima volta a non «scacciare il pensiero» della notte in cui i due sono morti in un incidente stradale – una maledetta sera in cui Ellis aveva deciso di restare da solo a casa, mentre moglie e amico andavano a ascoltare una lettura dell’opera di Walt Whitman. Gli tornano, allora, alla mente dei versi che Michael amava ripetere: «O Capitano! O mio capitano! Il nostro temibile viaggio è terminato…». Si ricorda che stava ascoltando Chet Baker, in attesa che Annie e Michael rientrassero a casa, e aveva anche «pensato a quant’era fortunato ad amarli». Finalmente con coraggio per la prima volta fissa nella mente quello che era stato «il mondo dove aveva vissuto tra il momento in cui stava accadendo e il momento in cui l’aveva scoperto». Quindi ricorda l’arrivo della polizia, il riconoscimento dei cadaveri, la scoperta in quell’istante che Michael era malato, aveva l’Aids, e lui non lo sapeva; non sapeva più niente del suo amico.

Nella seconda parte del romanzo Sarah Winman cambia voce e prospettiva. La narrazione passa in prima persona attraverso il racconto di Michael, per la precisione il suo diario. Si svela così tutto ciò che il narratore esterno della prima parte, nell’osservazione di Ellis, aveva tenuto celato, aveva di continuo frenato. Si liberano le reticenze e i colori e le pennellate diventano quelle vangoghiane.

Siamo tra il 1989 e il 1990, poco prima dell’incidente che gli stroncherà la vita. Michael assiste G, un suo amante, malato terminale di Aids. Mentre è lì, in ospedale, parla con un altro paziente, un ragazzo di diciannove anni, anche lui gravemente malato; e si ritrova così a confessargli del suo unico vero amore, che non è G, ma è Ellis. Michael allora descrive sul suo diario il loro rapporto e amicizia fino al giorno in cui quel legame misto di tenerezza e comprensione diventa qualcosa di più durante un viaggio in Provenza, quando sono poco meno che ventenni. Quei nove giorni segnano Michael, che da allora non riuscirà a amare più nessuno. Al contempo, però, deve accettare che Ellis non dia seguito a quella loro relazione, che cominci a rimuovere, fino addirittura a «non ricordare niente», si accontenta di restargli amico, finché entra in scena Annie che Ellis sposa. Così si ripropone lo schema di una laison a tre, laddove prima c’era Dora, ora c’è Annie.

Michael seguita a ricordare e raccontare. Parla della sua fuga a Londra, in cui tradisce quella laison, fino a sparire dalla vita di Ellis e Annie. Finché un giorno, dopo aver assistito alla fine di G, capisce di essere malato a sua volta. Allora parte per Arles, sui passi dell’ultimo Van Gogh, della sua relazione con Gaugin. Rimane un’intera estate, lavora in un mas davanti a un campo di girasoli; pulisce le camere e i turisti lo chiamano Monsieur Triste. E lui si sente «goffo e profondamente» solo. Allora decide di tornare a Cawley da Ellis e Annie. L’epilogo lo conosciamo.

La bravura di Sarah Winman non passa solo attraverso una storia malinconica e commovente, raccontata con sapienza e capacità di gestire tempo e struttura narrativa, ma si rivela anche nell’attenzione di differenziare il registro stilistico tra la prima e la seconda parte. Se la narrazione esterna di Ellis è metallizzata, lucida, secca e reticente come lo è quell’uomo di latta, al contrario l’io narrante di Michael è sofferto, viscerale, colloquiale e poetico come è lui.

 

(Sarah Winman, L’uomo di latta, trad. di Marco Rossari, Mondadori, 2021, pp. 165, euro 17, articolo di Fernando Coratelli)
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