Maradona e il metodo Minà
La versione di Gianni
di Filippo Reina / 2 ottobre 2021
Durante l’ultimo forzato periodo di chiusure mi è capitato di vedere su Netflix il documentario Diego Maradona di Asif Kapadia. Tagliato da oltre 500 ore di girato, non c’è ombra di dubbio che sia il materiale video più straordinario mai imbastito sulla vita di un atleta, nonostante non copra l’intera carriera del Pibe de oro ma si concentri solo sui sette gloriosi anni trascorsi a Napoli. Quello che colpisce è soprattutto il contrasto tra una focalizzazione molto ravvicinata alla storia e il carattere del suo protagonista che sfugge subito in idolo metafisico.
Maradona è qui il fantasma, pura immagine cinetica, corpo sacralizzato in viva reliquia di una devozione popolare che arriverà a sacrificarlo per una sorta di rito di espiazione collettiva. Si esce attoniti e provati dalla visione: abbiamo assistito alla ascesa e caduta di un eroe unico della contemporaneità, teso al divino ma rimasto invischiato nelle cose umane, o alla storia comune dell’ultimo tra gli uomini straordinari?
Per ristabilire lucidamente le giuste misure e ora, dopo la sua morte, consegnare Maradona alla nostra storia recente, credo sia più utile rivolgerci a questo punto a un libro, l’ultimo di Gianni Minà, che ripercorre la vita dell’amico (amico per davvero) Diego in un continuo e agile palleggio tra articoli d’epoca e racconto memoriale.
Già dal titolo, Maradona: «Non sarò mai un uomo comune». Il calcio al tempo di Diego (minimum fax, 2021), si capisce di essere difronte a una partita giocata tra la resa diretta della voce del protagonista e il racconto di un’epoca calcistica irripetibile, forse l’ultima epica prima dello strapotere mediatico e finanziario degli interessi fuori campo.
La scrittura e direi il metodo Minà – quello che lo ha reso maestro del nostro giornalismo, sempre discreto e ponderato nell’accompagnare i fatti e il loro confronto a informare il lettore o l’ascoltatore – sono qui dispiegati al massimo grado, con un accento di passione in più che non inficia mai l’equilibrio del discorso.
Come già nel libro su Muhammed Alì e nel recente Storia di un boxeur latino, rapida cavalcata autobiografica di un professionista impegnato e vigile tra i subbugli del secondo Novecento, Gianni Minà tiene fede al suo stile asciutto e conciso che resta in punta di penna tra emotività («Non ho mai pianto, e se piango non lo dico a un giornale») e giusto distacco di cronaca.
La versione di Gianni è frutto di una conoscenza diretta, privilegiata negli anni, da quando Maradona sbarca a Napoli nel 1984 fino all’ultimo messaggio audio su WhatsApp prima della morte. In mezzo c’è l’epopea di un uomo che ha giocato non solo con il pallone ma con le dinamiche storiche di un periodo ancora caldo di ideologia e conflitto sociale. Non nascose mai ad esempio la sua simpatia per Cuba e l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti.
Ma Diego era anche maschera carnevalesca, racconta Minà, e la sua posizione spesso emergeva con ironia e istrionica teatralità. Al gran gala della Fifa del 2001 per il calciatore del secolo, uno scherzo dei suoi. Diretta Rai, parterre di campioni. Vince Maradona, i dirigenti della Fifa non hanno calcolato il voto popolare: inventano nel panico per il designato Pelé un premio parallelo. El Pibe si presenta sul palco e dice: «Dedico questo premio all’argentino più famoso del mondo». Eccolo, il solito, si sente dio, mormorano dalle prime file i benvestiti del calcio internazionale. Diego studia la pausa e aggiunge: «L’argentino più famoso, Ernesto “Che” Guevara».
I conflitti e le lotte avvengono però anche con la gente, la sua gente che lo ha amato e odiato come in una vera storia d’amore. Ai mondiali del ‘90 contro la nostra nazionale Maradona trascina un’Argentina stanca, piena di botte, esordienti e pensionati, tirando il rigore decisivo. A Minà, che lo aspetta sempre in un sottopassaggio, dietro l’angolo o nella stanza dei massaggi, dice: «Ho festeggiato, poi mi sono calmato, perché ho visto la tristezza sui volti di molti amici». Negli spogliatoi palleggia con una saponetta, lo portano di peso sotto la doccia. Minà gli suggerisce: «In finale gira lontano dall’arbitro, cercheranno di impallinarti». Dopo il labiale più famoso del calcio, quel «hijos de puta» mormorato al maxischermo mentre l’Olimpico fischia l’inno argentino, la finale fu una partita orrenda e sbilanciata. Celebrata la vittoria mondiale, i tedeschi vanno a uno a uno ad abbracciare Diego.
L’anno del mondiale in Italia fa anche da spartiacque tra il primo e il secondo tempo del libro, intervallato da due lunghe interviste. Se fino a qui è ripercorsa la strabiliante ascesa a Napoli, indicando anche i germi delle crisi future e l’acme del mondiale messicano vinto in stato di grazia, inizia poi il racconto del declino e della nuova rinascita nei primi anni 2000. Maradona vuole curare la sua dipendenza dalla cocaina, dopo una crisi cardiaca molto grave: «Il Barba aveva paura che facessi casino lassù, continuerò a fare casino sulla Terra». Fidel Castro, intuendo anche la portata propagandistica dell’operazione, lo invita all’Avana: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi». Arriva anche Minà, per l’ennesima rinascita di Diego, che poi vince il premio Fifa. Non dimentica i diritti umani, dice no all’indulto per i generali assassini: «La dittatura ci aveva nascosto tutte le sue infamie. Fu nei viaggi con la Nazionale argentina che scoprimmo i loro crimini, fu sconcertante e mortificante».
È il Maradona fuori campo che continua a far paura, ma è una potenza fragile, un uomo che non vede all’orizzonte la sua salvezza. Sullo sfondo, l’amore per Napoli, passione totalizzante che lo ha sfiancato e infine quasi distrutto. Minà ristabilisce in maniera più precisa la vicenda: «Provò la cocaina per la prima volta in Catalogna, e mi diceva: “Maledico quel giorno. Io non l’ho mai comprata. Me l’hanno sempre portata”. Ferlaino doveva liberarlo. Platini resistette cinque anni nel calcio italiano. Diego era in gabbia, prigioniero dei suoi eccessi e del calcio. Ma ha fatto male solo a se stesso».
A fine lettura l’immagine di idolo e genio in fuga che emergeva dal documentario citato in apertura è riformulata, integrata dalla consapevolezza che se eroe è stato si tratta di un eroe fragile, toccato dal divino ma troppo umano per essere davvero un dio. E il libro di Minà assume allora una fisionomia strana, che trascende la cronaca, i dati, i fatti, pur fornendoli con chiarezza professionale. Potremmo definirla mitografia contemporanea, racconto che dai giornali ascende alla sfera delle grandi storie, popolari e universali come ogni mito.
Quella di Minà però non è una declinazione di giornalismo narrativo epicizzante, di impostazione americana, e non concede nulla nemmeno alla recente storytelling enfatico-performativa (vedi Buffa e affini). Sia negli articoli d’epoca sia nel racconto a posteriori, al centro resta sempre la testimonianza: andare a vedere e far parlare i fatti, i protagonisti, con la massima essenzialità possibile. Che non significa evitare di prendere posizione, chiarire questioni calde, come il pessimo comportamento della società napoletana negli ultimi anni in Italia o la controversia giudiziaria con il nostro fisco, risolta a favore di Maradona solo dopo la sua morte. Minà resta fedele a un’idea di giornalismo estremamente libera nello scegliere il proprio punto di vista e il metodo di indagine. Sulla scorta del grande Gianni Mura, ci insegna come anche i fatti sportivi e di costume possano sempre illuminare anche le vicende generali di un’epoca. E riesce a farlo lasciando questa libertà anche al lettore, che nel fenomeno Maradona potrà vedere aspirazioni, cadute e contradizioni di tutta una società che assomiglia a noi. Non «uomo comune», dunque, ma eccezionale come tutti.
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