Tristano muore
di Cristiana Saporito / 6 aprile 2011
Da dove parte un racconto?
Da quando lo si vive o da quando si comincia a morire?
Davvero difficile fornire una risposta, ma Tabucchi con Tristano Muore nel tentare fallisce ben poco.
È un romanzo-memoriale il suo, un possente “ricordo biografico”, una corrente frastagliata e parlante di giorni piccoli e istanti eroici.
Un uomo ormai vecchio, giunto al suo ultimo agosto, chiede ad uno scrittore di raccoglierne i frammenti, perché niente sfugga o tutto cambi.
Così, mentre le ore piovono tiepide o ronzano a lungo attorno alla stanza, Tristano dipana i suoi fili, i fili di un sé in terza persona, di un uomo lontano da quella cancrena, da un verme che lo divora, fatto di attese e di notti accorate.
Il testimone non replica, perché il vero ascolto è soltanto il silenzio, perché forse alla fine sarà il libro a ribattere e in questo tacito transfert ogni cosa trova espressione, una nicchia assolata in cui rifugiarsi: la guerra, l’istinto, la nostalgia di un viaggio impossibile, sfumature dell’indaco su una smorfia d’amore.
Ogni momento per Tristano è un inizio, uno spunto infinito in cui prendono corpo confessioni assennate e scorci immaginifici, in cui una sola congiunzione raccorda mondi reali e confini sognati. Ovvero pur sempre vissuti.
In una mente ottenebrata da se stessa, da quei troppi anni di speranza difesa e verità cercata, tra gli squarci visionari di un po’ di morfina e le viscere di una cefalea, l’autore si fa scrivere dall’altra parte di se stesso, perché forse ogni scrittore è doppio (quando non multiplo) e col suo stile limpido e lirico restituisce tutto il senso di un cammino, mai immobile pur se immobilizzato.
È un percorso che non stanca, quel suo coraggio di avere paura, che ci lascia portare per mano fino al pensiero del suo “domani”, un poetico paesaggio di pagine in cui trovarsi a leggere il valore di scrivere.
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