“Settanta acrilico trenta lana” di Viola Di Grado
di Chiara Gulino / 18 aprile 2011
È un romanzo monocromatico. Il colore è il grigio, il “grigio-Leeds”, «il colore che se li mangia tutti senza masticare», ottenuto dal bianco come la neve, quella che cade perennemente da uno spietato cielo inglese, e dal nero come la notte, come il buio di Christopher Road, «una via talmente brutta da essere una prova che Dio non esiste», dove «…non comincia mai niente. Semmai finisce.», «…punto di macabra convergenza di tutte le brutture della razza umana».
Leeds è la città apocalittica, «dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima» e in cui è ambientato Settanta acrilico trenta lana, sorprendente e spiazzante libro d’esordio della ventitreenne Viola Di Grado.
L’autrice precipita il lettore nella mente stravolta di Camelia, una ragazza poco più che ventenne, la cui esistenza si è arrestata per sempre il 12 dicembre 2004. E con la sua, quella della madre Livia, un tempo bellissima e dopo quella fatidica data una larva umana, un cadavere vivente chiuso in un mutismo assoluto e impenetrabile. Il trauma è la morte del padre di Camelia, Stefano Mega, caduto insieme all’amante con l’auto in un fosso vicino casa, a Grosvenor Road: «È stato in quei giorni che è cominciato il lutto delle corde vocali. Mia madre ha smesso di parlare gradualmente, come se fosse una fase naturale e necessaria del ciclo vitale». Da allora anche Camelia smette di parlare con il mondo, dialoga con la madre attraverso la lingua degli sguardi, distrugge tutto ciò che la circonda. Camelia ha il nome di un fiore orientale, ma i fiori lei li decapita. Per gridare a tutti la sua estraneità al mondo comincia a vestirsi con abiti che recupera nel cassonetto, opera di un sarto forse incapace: abiti cuciti di sbieco, con bottoni sotto le ascelle, le maniche nel sedere, pantaloni a tre gambe, scollatura fino all’ombelico, tutti sottoposti all’ulteriore “chirurgia antiestetica” di Camelia. Lascia l’università e per guadagnare l’indispensabile per la sopravvivenza ottiene un lavoro come traduttrice dall’italiano all’inglese di manuali d’istruzioni presso una ditta di lavatrici. Con i primi soldi compra una Polaroid alla madre in un tentativo estremo di rianimazione e per provocare in lei un rigurgito di vita. Ma, divenuta ormai un animale che si aggira sporco e puzzolente per la casa, la madre comincia a fotografare in modo ossessivo i buchi (quello del tavolo, quello del soffitto, quello dello scarico della doccia, quello del formaggio), metafora del suo vuoto interiore.
Per un momento sembra però che per Camelia il tempo vitale possa ricominciare a scorrere. Un giorno incontra Wen, ragazzo cinese, timido e gentile. Per lui ricomincia a parlare, passando dall’anoressia alla bulimia verbale. Le parole diventano suoni vomitati come cibo. Con lui ricomincia a studiare gli ideogrammi cinesi e viene travolta dall’entusiasmo per i significati sempre nuovi che racchiudono ermeticamente come in uno scrigno le chiavi dei tratti cinesi.
Camelia si innamora di Wen, ma lui la respinge. Angosciato da segreti inconfessabili, rifiuta il suo corpo che la ragazza tortura, prima offrendolo al fratello ritardato, Jimmy, poi coprendolo di ideogrammi incisi a sangue con un taglierino in un accesso di furore autolesionistico.
E proprio quando a Camelia appare di aver toccato il fondo della sofferenza, nella madre sembra risvegliarsi un latente istinto di sopravvivenza. Comincia a frequentare un corso di tecnica fotografica (che peraltro Camelia le aveva trovato su internet) e si innamora dell’insegnante, Francis.
Ma il finale ci questa favola dark non può avere un lieto fine. Non ha niente di consolatorio, non c’è catarsi, anzi ci si danna maledettamente l’anima.
L’originalità del romanzo lo rende immune da qualsiasi tentativo di imprigionamento in qualsivoglia genere letterario. Né la penna della Di Grado è comparabile ad autori noti come Amélie Nothomb (pure richiamata in quarta di copertina) o a suggestioni gotico noir alla David Lynch. La lingua è pura anarchia, è tagliente come una lama affilata. Attraverso iperboli, sinestesie, allitterazioni e squarci lirici, la giovane autrice crea una scrittura lacerante, strabordante, immaginifica, graffiante e cinica. È con questo inedito codice linguistico che ci racconta una storia di alienazione e di depressione, di disperazione e di ossessione (ossessione della morte, quella vera del padre, quella apparente della madre, quella che desidera per sé, e del sesso, quello clandestino fra il padre e l’amante, quello che Wen le rifiuta e quello che Jimmy le offre). E alla fine si rimane con il fiato mozzato e lo stomaco sottosopra come quando si scende dalle montagne russe.
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