L’Aranycsapat
di Francesco Vannutelli / 22 maggio 2011
La casa dove vive mio nonno ha un giardino così grande che ci si potrebbe giocare una partita di calcio vero, di quello con le porte grandi. Però qui sono tutti vecchi e mi sa che nessuno ha voglia di giocare con me. Mia madre mi fa cenno di entrare mentre mi immagino di correre sul prato palla al piede e di tirare verso il cancello verde, grande esattamente come una porta da calcio vero, e fare gol.
Dentro ci sono un sacco di vecchi che ci fissano tutti per un attimo appena entriamo. Mamma fa un cenno di saluto con la mano e loro rispondono sorridendo. Un’infermiera grassa ci viene incontro. Sorride anche lei. Ci dice che nonno ci aspetta di sopra, in camera sua. Dice che oggi sembra di buon umore, per i suoi standard.
Da quando nonna non c’è più il nonno è sempre arrabbiato. Se la prende per ogni cosa, non fa più battute, non ride mai e parla sempre in ungherese. Mia madre mi ha spiegato che lei e lo zio avevano deciso di portarlo lì, in casa di cura, dopo che per due volte l’avevano dovuto portare in ospedale di corsa. Non prendeva più le medicine, diceva che non aveva senso. Così lo avevano messo qui, perché le infermiere si prendessero cura di lui. «Inizi ad essere grande», mi aveva detto un giorno, «per cui devi cominciare a darmi una mano con il nonno, a fargli compagnia quando io non posso, che sennò si sente solo». Io ho quasi dodici anni e forse l’altro giorno mi sono visto i primi peli sul labbro. Vuol dire che sto diventando grande, un uomo. Perciò oggi sono venuto qui a stare con lui per un po’, mentre mamma parla con i medici e gli infermieri.
Nonno ha una stanza tutta per sé, con una grande finestra che dà sul giardino. Passa le sue giornate lì, seduto sulla sedia a rotelle che ha preteso per quanto non ne avesse veramente bisogno. Dice che camminare lo stanca troppo, preferisce stare seduto. Quando entriamo ci sorride e ci fa cenno di avvicinarci.
«Szia Papa [1]», lo saluta mia madre baciandolo sulla guancia.
«Szia szerelmem [2], szia Antonio».
«Ciao nonno», io non parlo ungherese, quando parlano tra di loro capisco poco o niente.
«Allora come va papà, ti trovi bene? Com’è il mangiare?».
«Szar [3]! Tutto è szar! Non mi lasciano mai in pace, quell’infermiera csúnya [4 ] entra in camera mia ogni cinque minuti per sapere come sto».
«Papà devi parlare in italiano, Antonio non ti capisce sennò».
«È perché non gli hai voluto insegnare l’ungherese, sennò capirebbe. Che cosa lo fai crescere a fare Olaszorszàgban [5]! Andate Magyarországban [6] voi che potete! Farok [7]!».
«Elég Papa! Elég magyar [8]! Parla italiano e basta parolacce! Adesso vado a parlare con i dottori e Antonio ti fa compagnia».
Mamma mi fa una carezza prima di andare via. Mi scanso infastidito.
«Tua madre è una donna bellissima,» dice nonno quando sua figlia si è chiusa la porta alle spalle. È vero, mia madre è una donna bellissima, con quei suoi occhi azzurri, quasi di ghiaccio. È molto più alta delle altre mamme, a scuola. Una volta avevo visto una foto della nonna da giovane ed era incredibile quanto fossero simili, solo che la nonna aveva i capelli neri.
Nonno fissa la maglietta del Portogallo che indosso. «Perché c’è un 7 al centro?», mi chiede.
«È una maglia di calcio, nonno» , gli spiego, «di Cristiano Ronaldo, il mio giocatore preferito».
«Ronaldo. È italiano?».
«No nonno, è portoghese, questa è la maglia del Portogallo».
«E perché indossi la maglia del Portogallo?» mi domanda incredulo.
«Ci sono i mondiali tra poco, e oltre l’Italia tiferò anche per il Portogallo. Perché c’è Ronaldo, il mio calciatore preferito», gli spiego.
«E perché non tifi per l’Ungheria invece che per il Portogallo?» mi chiede.
«Nonno, l’Ungheria non c’è ai Mondiali, credo non ci sia mai andata!» gli rispondo trattenendo appena una risata. Sembra che non sappia niente del mondo fuori da quella stanza. Non sa neanche chi va ai Mondiali!
«Non c’è mai andata? Ma che dici, non hai mai sentito parlare dell’Aranycsapat?». Faccio cenno di non con la testa.
«I giovani d’oggi. Aranycsapat vuol dire Squadra d’oro nella vostra lingua. Era il modo in cui veniva chiamata la nazionale ungherese quando ancora vivevo a Budapest. Ci giocavano solo calciatori fortissimi, i migliori del mondo. Venivano quasi tutti dall’Honvéd. Ho giocato anche io nell’Honvéd, quando ancora si chiamava Kispest. Lo sai che il nonno è stato una mezz’ala niente male?».
Di nuovo gli faccio cenno di no con la testa. «Ma non sai proprio niente! Ero molto promettente, Ferenc mi diceva che ero meglio di lui. Sai chi è Ferenc Puskás, almeno?».
Stavolta gli faccio cenno di sì: è tra i giocatori segreti che puoi sbloccare alla Playstation. Tira molto forte ma è lentissimo. «Ferenc e io eravamo tanto amici. Lo conoscevo quando ancora si faceva chiamare Miklós Kovács per fregare il regolamento sull’età minima per farsi tesserare. Mi diceva sempre: “Vedrai, il mondo si ricorderà di te, Csaba Orczy, non di me!”. Poi però mi sono fatto male al ginocchio, ho iniziato a lavorare e ho smesso. É stato un sollievo, non sopportavo gli allenamenti!», scoppia in una breve risata, poi riprende, guardando fisso il pavimento davanti a sé, «Però io e Ferenc siamo rimasti amici, tanto che mi ha invitato in Svizzera per seguire la squadra ai Mondiali, nel ’54. Conoscevo quasi tutti i ragazzi, eravamo cresciuti insieme. Lo sai sì che l’Ungheria ha quasi vinto una Coppa del mondo?».
Torno a fargli di no. Nonno sbuffa e si alza dalla sedia. Inizia a camminare per la stanza mentre riprende il racconto: «Quando iniziò quella Coppa del Mondo, anzi, all’epoca era la Coppa Rimet, noi eravamo gli assoluti favoriti. L’ Aranycsapat non perdeva una gara ufficiale da 4 anni. Avevamo battuto quegli arroganti degli inglesi per 6 a 3 a casa loro. Erano convinti di essere i più forti! Ai tempi non si perdeva tanto tempo a fare tattiche inutili come adesso. Bastava far capire chi era più forte. E noi eravamo più forti di tutti. Ferenc, Kocsis, quel genio di Hidegkuti che sbucava da ovunque. In panchina c’era Sebes, come un padre per tutti i giocatori.
Insomma inizia il Mondiale e si capisce subito perché siamo la Squadra d’oro: nove gol alla Corea nella partita d’esordio, quattro al Brasile, l’unica squadra a farci un po’ di paura. La battaglia di Berna, l’hanno chiamata. Si sono picchiati come fabbri, in campo», il nonno si ferma un attimo e guarda fuori dalla finestra. Gli occhi gli brillano.
«Poi altri quattro all’Uruguay», riprende, «i campioni in carica. Ridicolizzati. Non c’era competizione. Le altre squadre giocavano a calcio, noi facevamo calcio, creavamo bellezza. Essere lì allo stadio, a tutte le partite, è stata la cosa più bella della mia vita, prima di nonna.
Arriviamo alla finale e ci troviamo contro la Germania Ovest, una squadretta da nulla. Nel girone di qualificazione gliene avevamo rifilati otto, per quanto avessero provato a fermarci dandole di santa ragione a Ferenc, fino a farlo uscire dal campo.
La finale non era neanche iniziata che Puskás, appena rientrato dall’infortunio, segna subito. Non passa un minuto che arriva il secondo gol di Czibor. Due a zero subito, in meno di dieci minuti. Io ero in tribuna e pensavo “Ormai è fatta, gliene facciamo otto anche questa volta!”. Quando hanno segnato il primo gol non gli ho dato troppo peso. Non immaginavo certo come sarebbe andata.
L’hanno chiamato il “Miracolo di Berna”, ma io non credo ai miracoli. Perché non può essere un miracolo che la squadra più forte del mondo, imbattuta da quatto anni, vada a perdere per tre a due contro una squadretta insignificante. E che miracolo è che l’arbitro annulli il gol del pareggio di Ferenc al novantesimo? Era tutto così strano, così inaspettato. I ragazzi mi hanno detto che i tedeschi correvano di più, non si fermavano mai.
Dicono che nei giorni successivi i giocatori tedeschi vennero tutti ricoverati in ospedale per dolori al fegato e strane febbri. L’università di Leipzig ha fatto una ricerca, anni dopo, pagata con soldi tedeschi, ed è venuto fuori che a tutti era stato iniettato qualcosa spacciandolo per vitamine. Al tempo non c’erano i controlli medici di adesso. Si erano presi qualcosa, per forza. Com’è che si chiama, toping?».
«Doping, nonno».
«Vabbè quello che è. Comunque, l’Aranycsapat, la più forte squadra di calcio di tutti i tempi, fermata con un vile trucco a un passo dalla gloria.»
«E poi?», gli domando, «Ai mondiali successivi che ha fatto l’Ungheria?».
«Niente, szerelmem. Nel 1956 Budapest e tutta l’Ungheria sono insorti contro il regime comunista che ci opprimeva. Io stesso ho passato più tempo in piazza che a casa, a combattere per la nostra libertà. Poi i russi ci hanno invaso con i carri armati. Quelli che ce la fecero scapparono via. Io arrivai in Italia, conobbi tua nonna che ancora non parlavo italiano. Mi aiutò lei, tutto il tempo. Era così bella che sembrava Budapest a primavera. Ora che non c’è, non ho più nulla. Mi sento di nuovo quel ragazzo arrivato solo in un paese lontano, in mezzo a gente che non parla la mia lingua». Il nonno si siede di nuovo sulla sua sedia. Mi guarda negli occhi per un lungo istante. In fondo ai suoi occhi azzurri vedo tutta la tristezza di un tempo che non c’è più, delle persone andate via. Sorride distogliendo lo sguardo. «Non parlavo di queste cose da così tanto tempo. Eppure è tutto così chiaro, tutto davanti a me.
Tanti giocatori non fecero più ritorno in Ungheria, nemmeno per la nazionale.
Non ho più visto Ferenc. Quando scoppiò la Rivoluzione lui era in Spagna per una partita dell’Honvéd. Decise di non tornare più a casa. Provai a scrivergli, quando seppi che era stato preso al Real Madrid, ma non mi rispose mai. Ho letto sui giornali che è tornato in Ungheria, dopo la fine del comunismo, che ha allenato la nazionale e che è stato trattato da eroe, come meritava».
Vorrei chiedergli tante cose, su come giocava l’Ungheria, su come giocava lui. Vorrei dirgli che pure Ronaldo gioca nel Real Madrid, come il suo amico. Vorrei chiedergli come era vivere in Ungheria e se avesse visto davvero i carri armati, ma dopo aver parlato tanto sembra così stanco da non capire più dov’è. Si guarda attorno, la bocca semi aperta in un affanno continuo, gli occhi tristi, che girano per la stanza e quando incrociano i miei sorridono.
Mamma rientra in stanza. Lo guarda a lungo e gli chiede se va tutto bene. Il nonno le sorride e tutta la tristezza sembra andare via dai suoi occhi. Dice che dobbiamo andare che sennò faccio tardi a inglese, che, se voglio, possiamo tornare domani.
Mi chino ad abbracciare il nonno e sento le sue guance ruvide umide di pianto. Negli occhi non ci sono lacrime.
«Ciao Antonio», mi dice in un sorriso.
«Szia nagyapa [9], a domani».
4 luglio 1954, Berna, Wankford Stadium.
Germania Ovest – Ungheria 3-2
Germania Ovest (2-3-2-3): Turek; Posipal, Kohlmeyer; Eckel, Liebrich, Mai; Morlock, F. Walter; Rahn, O. Walter, Schäfer.
Allenatore: Sepp Herberger.
Ungheria (3-2-3-2, detto “M-M”): Grosics; Buzánszky, Lóránt, Lantos; Bozsik, Zakariás; Czibor, Hidegkuti, Tóth; Kocsis, Puskás.
Allenatore: Gustáv Sebes.
Arbitro: William Ling (Inghilterra).
Marcatori: Puskás (U) 6′; Czibor (U) 8′; Morlock (G) 10′; Rahn (G) 18′ e 84′.
Comments