Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche
di Luca Casadio / 27 maggio 2011
Mounir è un ragazzo di diciannove anni che vive alla periferia di Parigi. La sua vita si snoda tra la famiglia, islamica osservante, e il suo umile lavoro da assistente in un negozio di parrucchiere. Così, sale e scende dal treno, la RER, che collega la banlieue parigina, in cui vive, al centro della capitale. Ma solo perché si deve recare, una volta a settimana, dal suo psicoanalista.
Questo tragitto, apparentemente ordinario, diviene invece il teatro dei suoi ricordi – surreali e divertenti stream of consciousness – e delle sue avventure strampalate. Tutto per lui è complicato: il sesso, l’amicizia, perfino divertimento.
Djaïdani, che con Boumkoeur ha raggiunto il successo in Francia, ci propone in questo romanzo breve la vita tragicomica di un invisibile; un personaggio al di fuori dei soliti circuiti, che parla una lingua immediata, giocosa e irriverente, sempre viva e piena di neologismi. Quasi un rap di strada.
Il pensiero corre a Safran Foer e al suo capolavoro. Per Mounir ogni cosa è illuminata, anche se di una scintilla che lui stesso non riesce a cogliere e che gli rimanda un’immagine di sé sfocata e perdente.
Questa è la nota distintiva del libro; quella di cogliere e trasmettere la vita e le ansie di un ragazzo non comune, un giovane che non riesce a trovare il suo spazio e una propria identità in un mondo che sembra rigettarlo. Non rimane di lui che una circoncisione sbagliata, una prima volta andata male – con la sua vecchia babysitter – e una mutilazione al pollice.
Sembrerebbe così il diario di uno sconfitto, che trova però il suo riscatto nella fantasia e nella capacità di raccontare, a modo suo, se stesso e la sua vita.
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