E i nostri volti amore mio leggeri come foto
di Cristiana Saporito / 2 giugno 2011
I titoli ingannano. O forse no. Tratteggiano una soglia in cui per qualche secondo restiamo a guardare il loro respiro, l’accordo segreto di quelle parole, come una danza di nuovi alfabeti. Aspettando che assumano una forma. Intuitiva o spiazzante. Una qualunque.
Ogni titolo è un invito. Sta a noi valicare l’ingresso. Decidere di entrare o fermarsi al di qua. E poi prendersi la briga di lasciarsi sorprendere.
Il libro di John Berger E i nostri volti amore mio leggeri come foto (Bruno Mondadori) è un esempio accecante. Ci si attende una lettera d’amore, una pioggia senza riparo, si annusa la voce di una carezza in cui ogni pagina plasmi un incanto e ringrazi il miracolo di essere al mondo, sotto il sorriso di quel soffitto. E invece è tutt’altro. E allo stesso momento è proprio così.
È un’epistola dischiusa. Un messaggio rivolto a tutti i lettori. A chiunque scelga di attraversare la porta. Una favola di favole. Un sentiero di “ c’era una volta”, in cui ogni volta è una scoperta, un pellegrinaggio tra immagini e canzoni, riflessioni, frammenti e poesie.
L’autore riempie le distanze di viaggi lievi e infiniti. Lui per primo è un viaggiatore di materie, spunti, argomenti, concetti diversissimi eppure convergenti.
Sceneggiatore, giornalista, saggista e romanziere, Berger naviga le sponde di mille esperienze, affronta piccole o grandi cose comuni: alberi, lucciole, colline, così come immensi paesaggi interiori. Con la capacità straordinaria di vedere e restituire. Sapendo che il visibile culla in sé il suo contrario. Che l’occhio è investito da ciò che coglie e sfidato da quello che sfugge. Che l’uomo lotta contro l’assenza per difendere ciò che ha visto dalla sua sparizione.
Come fa con il tempo e con la vita.
Per questo esiste l’arte, un’eterna profezia dal passato di cui si nutre lo spettatore, in cui ieri oggi e domani non stridono affatto perché coesistono in quello spazio di ogni colore.
È ciò che accade leggendolo.
Si passeggia tra i capitoli senza stancarsi, ritrovandosi addosso una luce più calda per ogni domanda, un tempo plurilineare in cui ogni riga è un giorno intero, un cammino prezioso, perché “la durata non è questione di lunghezza, ma di densità”.
Come mostrava Proust, come asseriva Bergson. E come Berger ci conferma con una forza tutta sua.
Partendo e tornando sulla sua lingua. Come un migrante di pensieri e di emozioni.
Che conosce ogni percorso come irripetibile, anche quando è esattamente lo stesso. Perché quei passi ci hanno cambiato. E “le impronte svaniscono sotto la neve” nel “bianco abbraccio degli addii”.
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