“La morte data”. A tu per tu con Mario Massimo

di / 15 giugno 2011

La morte data è un’elegante raccolta di racconti uscita ormai un paio d’anni fa che non ha ottenuto, a mio avviso, il successo che meritava. L’autore, Mario Massimo, è un professore in pensione che ci risponde con la stessa “lingua” che ritroviamo nel libro. Una lingua che ha il sapore della terra d’origine, la Puglia, e soprattutto ha il sapore della “letteratura”, della vera “letteratura”.

Buongiorno Professore, grazie per l’intervista. Come le ho già confidato ho amato molto il suo libro per due motivi: il primo perché l’ho trovato interessantissimo, con squarci di vita “vissuta” e “immaginata” che difficilmente ritrovo nella letteratura contemporanea; il secondo perché mi ha fatto riaprire il dizionario e cercare parole che non conoscevo. Sembra poco ma nella narrativa di oggi è un piacere che ci eravamo dimenticati. Quanto è stato difficile per lei proporre un libro del genere? È consapevole della “diversità” tra il suo modo di scrivere, il suo linguaggio, e quello di tanti scrittori di oggi?

Mi piace la metafora che Italo Svevo trovò per la letteratura: non è come una prostituta, bisogna farle lungamente e sapientemente la corte… Ecco, con le debite differenze di statura fra me e Svevo, nemmeno per me è stato come avere quel tipo di prestazione… Della “diversità” che lei nota sono, certo,  consapevole, ma come lo si è dei propri lineamenti, della propria voce: qualcosa, cioè, che non si sceglie, perché quello è il proprio modo di essere. Non è, insomma, una “posa”, magari a seguito di una indagine di mercato…

Il suo tipo di scrittura mi fa pensare subito ad un romanzo eppure ci troviamo di fronte a dei racconti. Ciò che è incredibile è che riesce ad unire la brevitas  della narrativa anglosassone alla ricerca “paratattica” della tradizione italiana. In un racconto come “Agnizione” c’è davvero tutto questo… Mi sbaglio? Se pensa ad uno scrittore del passato si “rivede” in qualcuno?

La possibilità di conciliare la brevità della narrazione con la densità dell’intreccio che la sottende mi è sempre parso il pregio maggiore, del genere “racconto” – nonostante esso non abbia, com’è noto, grande favore presso l’ establishment editoriale  italiano – , perciò se questa è l’impressione che si ricava dai miei racconti, non posso che esserne lieto. Quanto ai “padri”: una delle primissime scoperte della mia adolescenza di lettore fu (oltre all’Ortis, a 14 anni) Lucrezia Borgia della Bellonci, e poi, forse, anche Il Gattopardo, e quell’assoluto capolavoro dimenticato che è Lavinia fuggita di Anna Banti…. Ma ci sarebbe da fare un elenco lunghissimo!

Nel libro viaggia tra storie, epoche e ambientazioni diverse. Gioca con la Storia e con topoi letterari entrati nell’immaginario collettivo. Quanto è importante nella scrittura un bagaglio di conoscenze e di studi “classici”?

Quanto qualsiasi altra parte della propria esperienza di vita: il difetto di molti di noi è quello di non riuscire a tracciare una netta demarcazione fra letteratura  e vita (no, non come per Pirandello, “o la si vive o la si scrive”: in realtà è proprio “scriverla” il modo in cui “la si vive”, secondo noi). Ma certo, quando ci si mette a scrivere, è inevitabile che tutto quanto abbiamo “vissuto” sulle pagine di altri torni ad alitare nel nostro respiro.

Un racconto che ho trovato molto “letterario” è la “Madonna del Latte”. Può spiegare ai nostri lettori di cosa si tratta?

L’impressione di letterarietà può forse essere indotta più facilmente (ma credo che anche gli altri racconti non scherzino…!) intanto dai riferimenti impliciti alle biografie di Dante, Dino Compagni o il Petrarca bambino, ma forse ancor più dal tema, che torna anche in altri racconti della silloge, di quanto l’arte  (qui, l’arte figurativa, post-giottesca, ma è facile pensare anche a quella narrativa, ovviamente) possa  essere “realistica”; il che è immediatamente assonante – per chiunque abbia il mio colore di capelli: il grigio – col “realismo socialista” che tanto fece soffrire il povero Prokofiev, e chissà quanti altri… Ma poi, nel racconto, si salda sul motivo, diciamo così sveviano, della “inettitudine”, come viene vissuta dal protagonista: finché il colloquio con la donna di cui non ha saputo riprodurre i lineamenti gli fa scoprire un modo completamente diverso di vedere la cosa…. E poi, ancora, si potrebbe parlare della dicotomia “manniana” fra l’arte e lo spirito commerciale incarnato dal committente: ma temo si vada troppo lontano.

Nel più conosciuto libro di Tabucchi Pereira afferma che: “la filosofia sembra che si occupi solo della verità ma forse dice solo fantasie; la letteratura sembra che si occupi solo della fantasia ma forse dice la verità”. Si trova d’accordo? Quali sono gli scrittori che, secondo lei, hanno detto queste “verità”?

Non solo sono d’accordo con Tabucchi, ma penso che a un lettore anche disattento di questi racconti non  sfugga quanto queste “fantasie” mirino in realtà – il modello è, naturalmente, il dialogo filosofico di ascendenza platonico-classica: mi dispiace che l’editore non abbia accettato la mia proposta di sottotitolare la raccolta “dialoghi” – a coinvolgere il lettore in una riflessione sulla “verità”, su quello, almeno, che a un essere umano può apparire la verità…. Sicché, se queste sono le premesse, credo che si imponga a questo punto (con tutta la prudente umiltà delle dovute distanze…!) il nome del Leopardi, quello, grandissimo e poco apprezzato da generazioni di anime belle crociane, delle Operette morali.

Qual è il racconto del libro a cui è più legato? Sono stati scritti nello stesso periodo?

I racconti sono stati tutti revisionati e portati alla stesura attuale in un unico lasso di tempo (poco più di un anno, intorno al 2006), ma lavorando su materiali che risalgono parecchio indietro, anche fino ai primi anni di università, in prossimità del fatidico ’68; onestamente non riesco a sentire uno più vicino di altri: c’è in tutti una uguale mistura di “me-reale” e di divertimento inventivo.

Quali sono i luoghi e il tempo della scrittura?

Quello che mi piace della scrittura è il lavoro che si fa quando non si è seduti a tavolino (al supermercato per la spesa, aspettando il pullman, la mattina davanti allo specchio col rasoio in mano), e si continua a scavare verso il mot juste di flaubertiana memoria….

A breve su Flanerí pubblicheremo un suo racconto. Sta scrivendo qualcos’altro? Ha in mente altri progetti?

Il racconto che pubblicherete è, di fatto, poco più dell’incipit di un lavoro incentrato (“con alcuna licenza”, com’è giusto per i “generi misti di storia e d’invenzione” del buon Don Lisander) sulla figura del figlio che Giuseppina Strepponi, poi sposata da Giuseppe Verdi, ebbe da una tempestosa relazione precedente all’incontro col maestro: e che la portò a consigliargli di mettere in musica l’orrendo drammone che sta alla base del “Trovatore”, storia di un figlio “bruciato” da sua madre…

Questa pubblicazione è passata un po’ “sottotraccia”. C’è qualcosa che non rifarebbe?

Credo di aver già risposto con quello che ho detto all’inizio, circa il fare la corte alle donne. E, in fatto di editori disponibili, il parallelo con quel tipo speciale di professionista si dimostrerebbe quanto mai sdrucciolevole….

Chiudiamo. Perché un ragazzo dovrebbe leggere il suo libro? Io ho più di una risposta.

Mi verrebbe da dire: per lo stesso motivo per cui io lessi, quando era il mio turno, la Bellonci e la Banti (Artemisia è, a mio parere, l’insuperato vertice del romanzo italiano del ‘900), ma per non scivolare nell’autobiografismo – le ”viscere in pubblico” di cui parlava Stravinskij -, direi che un ragazzo  potrebbe magari ritrovarsi in molti dei miei protagonisti, che sono adolescenti: certo, dovrebbe fare forse uno sforzo maggiore, sul piano dello stile; ma dovrebbe esserci abituato, allo scarto letterario, dalle lezioni d’italiano, no?

È stato un piacere leggerla, incontrarla e, spero, iniziare un percorso comune.

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