E adesso pover’uomo?
di Vittorio Pessini / 16 settembre 2011
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la Germania ha saputo fare i conti con la storia, sviscerando ermeneuticamente il proprio passato e vigilando sulle ipocrisie di larghi strati della società, desiderosi di cancellare il ricordo della schizofrenia nazista alla quale avevano attivamente partecipato. Un ruolo fondamentale è stato giocato da quegli scrittori – si pensi solamente a Günter Grass e Heinrich Böll – che hanno saputo realmente, con i loro scritti, farsi interpreti della coscienza civile della nazione.
Molto più rari però sono stati i casi di autori capaci di raccontare in presa diretta il dramma in atto, o addirittura di anticiparlo. Tra questi spicca il nome di Hans Fallada, esponente di spicco della Nuova Oggettività, movimento artistico caratterizzato da una rappresentazione lucida e rigorosa del reale, priva di abbellimenti e orpelli retorici. Nel 1932, quindici anni prima della sua morte e della pubblicazione postuma di Ognuno muore solo [Clicca qui per la recensione], Fallada aveva consegnato alla stampa il romanzo E adesso, pover’uomo?, scritto in quattro mesi e ambientato in piena epoca weimariana, alle soglie della presa del potere da parte del nazismo. Il libro ebbe un buon successo in Italia, dove venne edito nel 1933 da Mondadori nella storica collana “Medusa”, in una traduzione – affidata a Bruno Revel – che però non rispecchiava fedelmente il testo originale tanto nello stile quanto nel contenuto, con numerose omissioni di carattere politico e di costume. Questa nuova edizione, a cura di Mario Rubino, restituisce per la prima volta in Italia il testo integrale.
Il romanzo racconta la parabola discendente della famiglia Pinneberg, stretta nella morsa di una schiacciante crisi economica. Il protagonista, Hans, attraversa tutte le fasi di un vero e proprio descensus ad inferos che lo condurrà, nel giro di pochi anni, alla miseria più nera, facendogli percorrere a ritroso tutti i gradini della scala sociale: impiegato in una ditta, commesso in una catena di grandi magazzini, disoccupato. Il suo mondo è fatto di conti, di raffronti tra introiti sempre più bassi e spese che, pur ridotte all’osso, finiscono sempre per superare il valore delle entrate. La nascita di un bambinonon facilita le cose. Pinneberg è impegnato in una continua rincorsa per conservare il proprio posto di lavoro, ma alla fine rimarrà schiacciato, come molti altri, da un sistema ormai al collasso, dove la ricerca spietata del profitto da parte dei capi e la creazione di un feroce clima di competitività tra i dipendenti non servono a evitare un tracollo economico che colpirà l’intero paese. Pinneberg è un kleiner mann, un pover’uomo che appartiene alla classe media, un “colletto bianco” che perde progressivamente il proprio status sociale, che smarrisce ogni speranza verso il futuro, che incassa le ingiustizie senza avere la possibilità di ribellarsi. Fallada utilizza Pinneberg come una lente di ingrandimento per raccontare la spersonalizzazione di milioni di tedeschi che, in quegli anni, stavano subendo la stessa sorte del suo personaggio. Pinneberg combatte una guerra non armata nella quale, alla fine, ci saranno solo vinti. Una guerra che oppone l’uno contro l’altro persone della medesima condizione, nella quale domina il principio dell’homo homini lupus. La storia ha trasformato l’uomo in un essere chiuso, estraneo agli altri, ostile, indifferente: nessun aiuto viene più concesso, nessuna mano tesa viene più porta.
Alla fine di questa Via Crucis Pinneberg, stanco, depresso, umiliato, viene picchiato da un poliziotto per essersi avvicinato troppo alla vetrina di un negozio: «Pinneberg vorrebbe dire qualcosa, Pinneberg guarda il poliziotto, gli tremano le labbra, Pinneberg guarda la gente. C’è gente fin sotto la vetrina, gente ben vestita, gente perbene, che guadagna. Ma nel riflesso della vetrina c’è un’altra persona ancora, una pallida larva, senza colletto, con un ulster consunto e i pantaloni sporchi di catrame. E ad un tratto Pinneberg capisce tutto, al cospetto di questo poliziotto, di questa gente perbene, di questa vetrina luccicante lui capisce che è tagliato fuori, che non appartiene più a quel tipo di mondo, che lo si caccia via a ragione: è scivolato giù, è finito a fondo, è spacciato».
Pinneberg è ormai un reietto per la società, un fallito, un miserevole. Torna a casa e la moglie lo accoglie, come sempre, a braccia aperte, pronta a consolarlo e a trasmettergli tutto il proprio amore: il nido familiare rappresenta l’unico rifugio, l’ultima àncora di salvezza in una società priva di compassione. Quella di Fallada, però, sembra a tutti gli effetti una provocazione: ci può essere davvero una salvezza a queste condizioni? Pinneberg minaccia di votare comunista, forse è antisemita, sicuramente non sa a chi chiedere aiuto. Di lì a breve il nazismo andrà al potere. Cosa farà il nostro eroe? Noi non lo sappiamo, ma nel nuovo ordine anche uno come lui potrà trovare finalmente spazio, garantire alla propria famiglia l’agognata stabilità e, perché no, vendicarsi magari dei soprusi subiti. Sono solo supposizioni, certamente, che provano a rispondere alla provocatoria domanda che dà il titolo al romanzo. Supposizioni, d’accordo, ma non inverosimili, perché come sottolinea Beniamino Placido in uno dei testi introduttivi di questa edizione: «è molto brutto dover fare i conti di casa entro limiti così soffocanti. Brutto e foriero di brutti pensieri. Quindi i nervosismi, gli isterismi. Forse i nazismi».
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