“L’inferno sono gli altri”: a tu per tu con Silvia Giralucci
di Massimiliano Coccia / 5 ottobre 2011
Silvia Giralucci è una giornalista veneta, che ha vissuto sulla propria pelle la crudeltà degli anni ‘70 e della terribile stagione del terrorismo italiano, perché in una mattina di inizio estate del 1974 suo padre Graziano Giralucci, agente di commercio, insieme a Giuseppe Mazzola, carabiniere in congedo, entrambi militanti dell’MSI, furono uccisi dentro la sezione di via Zabarella a Padova, dalle Brigate Rosse.
Nel 1974 Silvia ha tre anni e crescerà cercando di capire e di ricostruire quello che avvenne quel 17 Giugno del 1974. Nel mezzo di questo percorso arriva il libro L’inferno sono gli altri, che racconta e scava in quel giorno di Giugno, permettendo al lettore di immergersi pienamente negli intrecci e nelle contraddizioni di quegli anni, di quella storia che diventa narrazione collettiva. La forza del libro di Silvia Giralucci è proprio questa, non diventare una sterile litania personale sul dolore e sulla perdita, sulle ingiustizie e sulla solitudine, ma invertire la rotta, creare una memoria condivisa non sulla carta, ma nel suo senso più profondo, mescolandosi, confrontandosi, scoprendo gli altri.
L’inferno sono gli altri è una bella eccezione di questi tempi dove la memoria degli anni ’70 sembra essere protetta da vestali giornalistici del dolore e dove una vittima per comodità di Stato rimane tale, senza diventare motore di giustizia e verità.
L'inferno sono gli altri è una frase di Jean Paul Sartre riferita a quella sfera di rapporti umani e sociali che portano alla creazione di barriere, relazioni contorte che possono portarci all'inferno. Come mai un titolo così evocativoe duro?
Il titolo L’inferno sono gli altri è il risultato di lunghe discussioni con la mia editor di Mondadori, la bravissima e paziente Nicoletta Lazzari. Io volevo un titolo che richiamasse l’idea delle prospettive multiple, che raccontasse le difficoltà che abbiamo tutti a guardare il mondo anche con gli occhi del nemico, che sottolineasse la naturale tendenza a considerare la nostra violenza come inevitabile risposta a quelle che consideriamo aggressioni degli altri. Per la casa editrice era importante anche sottolineare la mia storia personale, il fatto che l’autrice fosse la figlia di una vittima del terrorismo. La citazione di Sartre aveva le fiamme, la dicotomia tra il noi e gli altri, l’idea delle prospettive e anche quella della sofferenza, e su questa ci siamo trovate d’accordo. Devo dire poi che mi sembra che come titolo funzioni perché ciascuno ci vede quel che crede. Il significato che gli dò io è molto diverso da quello che ci danno altri lettori. Va bene così.
Il tuo non è il canonico libro sulla storia personale di chi, dalle parte delle vittime, ha subito gli anni '70, ma vuole essere una ricerca letteraria, sociale ed antropologica sul significato degli anni di piombo, com'è stato immergersi in storie diverse tra di loro e cercare di comprendere "il perché"?
Non so se sia una ricerca letteraria, mi sento una giornalista che in questo caso ha usato la prima persona perché non sarebbe stato onesto nascondere ai lettori che questa storia tocca la mia carne. Ho lavorato con lo spirito della cronista, ho cercato di rapportarmi con i testimoni senza pregiudizi, lasciando che fossero loro a far emergere il loro mondo. Ciascuno è diventato la tessera di un puzzle, anche i pezzi non sempre combaciano, e molti mancano. Strada facendo ho capito che al fondo della mia ricerca c’era sicuramente il desiderio di comprendere le scelte e il destino di mio padre. L’ho cercato nelle storie delle persone che negli anni Settanta hanno rischiato, in modi diversi, la vita per le loro idee. Ciascuno mi ha restituito un tratto di umanità che poteva essere sua, e sicuramente questo mi dà una maggior serenità.
Quando uccisero tuo padre avevi 3 anni, quanto c'è in questo libro di quella bambina?
Credo emerga il dolore che purtroppo gli anni non hanno sopito, ma c’è anche l’idea che per guardare avanti è necessario confrontarsi e superare la rabbia.
C'è stato un momento duro, un momento in cui hai pensato che questo libro non l'avresti mai terminato?
I momenti difficili sono stati tanti, ma non per motivi interni al libro. La materia è così appassionante che avrei voluto dedicarmici giorno e notte. E invece di giorno lavoravo a tempo pieno all’ufficio stampa della Giunta regionale a Venezia, la sera e nei fine settimana faccio la mamma e per la scrittura mi rimaneva solo la notte. Quando non crollavo. Èstato un bel sollievo anche per i miei figli quando finalmente è uscito il libro.
Qual è stato il metodo di indagine e di scrittura?
Ho lavorato per rispondere alla mia curiosità. Mettere nero su bianco è stato un modo di fare ordine, di impormi una data di fine, perché quando scavo mi pare sempre di non essere ancora arrivata abbastanza in fondo. Per fortuna ci sono le scadenze dell’editore.
L'inferno sono gli altri sta girando molto l'Italia, quale bagaglio riporti da queste presentazioni?
Le occasioni sono molto diverse: la prima a Padova, il giorno del mio 40esimo compleanno, è stata una festa dove c’erano persino i compagni di liceo. In giro per l’Italia sono stata in luoghi e situazioni molto diverse: dai festival letterari alle feste di partito. Il libro si presta a molteplici chiavi di lettura: ad Atreju ,il meeting dei giovani del Pdl, la presentazione con Walter Veltroni e Marcello De Angelis è diventata una discussione sugli anni Settanta, alla festa di Sinistra e Libertà a Padova ho finalmente dialogato con una ex di Autonomia presente tra il pubblico. A Bologna è venuto in libreria Mario Bortoluzzi, voce della Compagnia dell’Anello che sulla vicenda di mio padre ha scritto una canzone. E mi ha rimproverata per non aver approfondito nel libro la ricchezza del mondo della destra, il mondo di mio padre, il ruolo del Pci nell’inchiesta di Pietro Calogero che portò al 7 aprile. Ma devo dire, i contesti che preferisco sono quelli politicamente variegati.
Una frase che rileggendola secondo te riassume il senso di tutto il libro?
«C’è sempre un’altra strada». Ci sono persone che me la ripetono quando mi incontrano per strada.
Comments