[RFF9] “Gone Girl” di David Fincher
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di Francesco Vannutelli / 20 ottobre 2014
Era probabilmente il film più atteso di questa nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Gone girl di David Fincher, arrivato all’Auditorium dopo essere passato già per i festival di New York, Atene e Zurigo, tra gli altri, e ha ripagato le attese. Una presentazione senza glamour, senza tappeti rossi, ospiti internazionali e conferenze stampa. È bastato il film, perché Gone Girl, senza essere un capolavoro, si impone come uno dei punti di riferimento della filmografia di David Fincher.
Prendendo ispirazione dal romanzo del 2012 di Gillian Flynn (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo L’amore bugiardo, che verrà adottato anche per il film), Gone Girl racconta il crollo di una coppia dall’apparenza perfetta. Nick e Amy stanno per festeggiare il loro quinto anniversario di matrimonio. Si sono conosciuti sette anni prima, a New York, dove entrambi provavano a diventare scrittori. Quando la madre di Nick si è ammalata si sono dovuti trasferire in Missouri per starle vicino. Tutto sembra andare bene, eppure la mattina dell’anniversario Amy sparisce. Non si sa cosa sia successo, in casa c’è un tavolino ribaltato, una minuscola macchia di sangue in cucina e nient’altro. La stampa e la televisione si dedicano con attenzione morbosa al caso, interpretando ogni gesto di Nick come sospetto, dai sorrisi in pubblico al rapporto con la sorella gemella. Amy sembrava la ragazza ideale. I suoi genitori l’avevano fatta diventare protagonista di una serie di romanzi per l’infanzia di grande successo, Amazing Amy, prendendo spunto dalle storie di lei bambina. Nick in verità sembra conoscerla poco, o almeno è quello che sospetta la detective Boney incaricata dell’indagine: ignora le sue amicizie, cosa faccia durante il giorno, come sia la sua vita in Missouri. In poco tempo, tra la pressione dell’opinione pubblica, che gli rimane incollata ogni momento, e le indagini della polizia, Nick passa dal ruolo di vittima a quello di sospettato numero uno dell’omicidio della moglie, pur in assenza di prove, pur in assenza di un cadavere. Le cose sono molto più complesse di quello che appaiono.
Non è facile, non lo è affatto, riuscire a ingannare gli spettatori in continuazione, portarli a empatizzare per un personaggio, poi a detestarlo, a sospettare il peggio, poi a cambiare idea di nuovo. È questo quello che è riuscito a fare David Fincher in Gone Girl. Perché Nick è un personaggio che cambia con l’evolversi della trama. È una vittima, evidente. Non sa dove sia la moglie; noi lo vediamo nei minuti iniziali parlare con la sorella e poi tornare a casa e non trovare più nessuno. Deve essere successo qualcosa mentre era via. Poi arriva il sospetto, un’amante giovane e pericolosa, un rapporto al collasso che rivela sempre di più le sue crepe. C’è la crisi economica, e il risentimento per i sogni lasciati a marcire e i soldi volati via, c’è la frustrazione del cambio di vita, dalla grande città alla provincia del Mid-West. E poi c’è l’insofferenza per un amore che si è fatto sempre meno autentico, per una moglie che controlla e giudica, fa sentire piccoli, falliti. Diventa lecito sospettare, allora, immaginare che dietro ci sia altro. Si inizia a guardare Nick con altri occhi, anche perché fuori campo la voce di Amy legge pagine del diario che parlano di violenze domestiche, prepotenze e paura. Eppure c’è un’altra direzione verso cui guardare, altre cose che possono essere rivelate. Amy aveva preparato una caccia al tesoro per l’anniversario, come faceva ogni anno, seminando indizi che solo Nick può interpretare. Sono queste tracce che mostrano altro.
Quello su cui Fincher si concentra (con il sostegno di Flynn che ha curato anche la sceneggiatura) è il potere della manipolazione, a ogni livello. Non esiste una verità assoluta, solo l’interpretazione che viene data della realtà. Nick diventa colpevole ancora prima che venga formulata un’accusa precisa, ancora prima che ci siano elementi a suo carico. Prima di un processo giudiziario è vittima di un processo di opinione, della costruzione esterna fatta dai media della sua storia, della sua vita, del suo rapporto con la moglie.
Non è solo un thriller, Gone Girl, per quanto il sistema di inganni e doppie piste ne faccia l’opera di Fincher più vicina al modello di Alfred Hitchcock. È, forse soprattutto, una satira sociale sul ruolo dell’informazione nella costruzione delle verità pubbliche. La colpevolezza o l’innocenza di Nick non sono rilevanti. L’unica cosa che assume realmente valore è l’immagine esterna che trapela, la convinzione sociale che si concretizza a partire dal semplice sospetto. La capacità di manipolazione non è a senso unico: i personaggi, Nick per primo, imparano in fretta a gestire la comunicazione, a mostrare immagini pubbliche ben lontane dalla convinzione individuale.
Nel costruire questo sistema di verità apparenti, Fincher finisce per scivolare in contraddizioni e approssimazioni di non poco conto nella parte finale, quando la verità inizia a rilevarsi. È come se, tutto sommato, importasse poco mantenersi pertinenti quanto piuttosto portare avanti la riflessione a ogni costo. A risentirne è soprattutto la trama del giallo che finisce per disperdersi e soccombere all’esigenza della critica sociale.
Si diceva, non è semplice ingannare gli spettatori più volte nello stesso film. Per riuscirci, David Fincher chiede al pubblico una sospensione di credibilità, uno sguardo capace di trascurare debolezze e contraddizioni. Se si riesce a osservarlo con quelle lenti, accettandone il cinismo, l’ironia feroce, e ad andare oltre l’accusa di misoginia che sembra continuamente pendere sul film, Gone Girl è capace di lasciare un segno profondo.
È probabile che se ne riparlerà al momento delle nomination agli Oscar. Rosamund Pike e la sua enigmatica Amy meritano senza dubbio di essere prese in considerazione.
(Gone Girl, di David Fincher, 2014, thriller, 147’)
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