“Il ragazzo d’oro” di Pupi Avati
di Francesco Vannutelli / 19 settembre 2014
Torna al cinema Pupi Avati dopo le esperienze televisive per la Rai degli ultimi anni (Un matrimonio, 2011, Il bambino cattivo, 2013, e Il sole negli occhi che si vedrà a novembre), e lo fa con Un ragazzo d’oro, storia di un aspirante scrittore (Riccardo Scamarcio) che si trova a fare i conti con la memoria del padre.
Davide Bias è un pubblicitario che sogna di diventare scrittore. Soffre d’ansia, è in cura da un’analista che lo tiene in un regime controllato di farmaci e vede le sue proposte letterarie rifiutate da tutte le case editrici e agenzie letterarie di Milano. Sospetta che la sua ragazza continui a frequentare il suo ex fidanzato, non solo, che ne sia ancora innamorata. Quando il padre Achille, sceneggiatore di commedie di successo ma di basso valore artistico, muore, Davide deve tornare a Roma. Il rapporto col padre era pessimo. Donnaiolo, distratto e assente, Achille mortificava il figlio frenandone le velleità artistiche. Almeno, questo è quello che credeva Davide. Al funerale, una editrice di gran fascino gli offre l’opportunità di riconciliarsi con il ricordo paterno cercando il romanzo autobiografico che Achille stava scrivendo.
Il padre. Figura centrale nel cinema di Pupi Avati. La sua assenza, presenza, invadenza è stata il fulcro della quasi totalità delle produzioni degli ultimi anni (da La seconda notte di nozze del 2005 fino a Il cuore grande delle ragazze del 2011, passando per La cena per farli conoscere, Il papà di Giovanna e Il figlio più piccolo). Figura a cui guardare, da cui cercare un’ispirazione o un confronto, o da cui fuggire. Questi sono stati i padri nel cinema di Avati, cresciuto dai dodici anni in poi senza il conforto del suo, di padre. Con Un ragazzo d’oro, Pupi Avati, però, non riesce in alcun modo a portare avanti il discorso, non riesce a svolgere in un modo nuovo un tema ormai diventato classico nel suo cinema.
Non basta la presenza della diva internazionale Sharon Stone (chiamata a interpretare l’editrice Ludovica Stern) a riqualificare la proposta o a spingere un qualsiasi tipo di curiosità. L’approssimazione è sovrana, sorprendente per un regista che, seppur tra alti e bassi, ha finora mantenuto uno standard di livello nel corso della lunga carriera. A stupire è la mediocrità della scrittura, incomprensibilmente premiata al Festival des Films du Mond di Montréal, con dialoghi a rischio di ridicolo e una superficialità di disegno dei personaggi da livello amatoriale, la regia che sembra risentire troppo dell’esperienza televisiva e non va oltre le riprese dal basso e un uso acrobatico dello zoom, la realizzazione tecnica a tratti sconcertante (il doppiaggio della Stone appare sempre fuori sincrono, ma è soprattutto l’uso a dir poco artistico delle location nell’ultimo incontro con Scamarcio a lasciare senza parole). Persino la direzione degli attori, che è da sempre il punto di forza del cinema di Avati, sembra organizzata senza la minima cura; la musica di Raphael Gualazzi è ridondante e retorica, addirittura l’ossessivo product placement è pessimo.
E cosa resta, allora? Resta lo sguardo disincantato, che già era stato utilizzato in La cena per farli conoscere (lì però il protagonista era attore mediocre che si sognava impegnato), sui meccanismi dell’industria cinematografica, con le commedie becere che strappano le risate del pubblico, «e piacerebbero tanto al mio amico Tarandino», come ripete a ogni occasione il regista Beppe Masiero, sodale del fu Bias, e la difesa estrema di una dignità artistica seppellita dalle logiche di mercato. Perché Davide scopre un animo sensibile nella scrittura del padre che mai è riuscito ad arrivare sul grande schermo, travolto e sconvolto dagli adattamenti registici. È in questa difesa della memoria che il figlio si riconcilia col padre, si rinchiude nel suo studio con le sue pantofole e il suo posacenere sempre pieno (e vabbé), indossa i suoi abiti (e vabbé), mette la sua colonia (e vabbé), si pettina e rade come lui (e vabbé). È da questa volontà di riscatto che scaturisce poi l’ossessione che dalla ricerca di contatto postumo finisce nell’identificazione, nel dialogo con le fotografie (e vabbé) e nel proseguimento dell’opera che non c’è mai stata.
Tutte cose che sarebbero magari anche interessanti se fossero rese con quel minimo di cura che si richiede al cinema. Cosa che a Pupi Avati non è assolutamente riuscita.
(Un ragazzo d’oro, di Pupi Avati, 2014, drammatico, 95’)
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