“L’isola che scompare”
di Fabrizio Pasanisi

di / 11 dicembre 2014

Guida turistica, quête sull’immaginario irlandese, divagazioni sui suoi grandi scrittori, persino un dialogo immaginario fra l’autore e James Joyce: non semplice e in fondo inutile definire il libro di Fabrizio Pasanisi, L’isola che scompare. Viaggio nell’Irlando di Joyce e Yeats da poco in libreria per Nutrimenti (nella collana Tusitala diretta da Filippo Tuena). Pasanisi parte da Cork (dal sud), risale verso le  scogliere (Cliffs of Moher), giunge nella Galway di Nora Barnacle, moglie di un certo James Joyce, scrittore dispettoso e un po’ disertore dell’anima irlandese e per questo meno amato del monumento istituzionale W.B. Yeats, a meno di non arrivare a Dublino, cosa che ovviamente l’autore fa, ove la diade conflittuale città-campagna, terra-spirito, tradizione-innovazione si ricompone in una cifra tonda che si direbbe il magnete irresistibile al quale Pasanisi non sa resistere.

Difatti, a dispetto delle parole del padre di Joyce («Nessuno che abbia un minimo rispetto per se stesso rimane in Irlanda»), Pasanisi racconta invece una vera e propria fascinazione che passa dalle campagne immancabilmente verdi, l’incombenza di un oceano cupamente romantico, laghi sparsi ovunque e fiumi (l’acqua onnipresente trova nel riverrun del Finnegans Wake «la migliore metafora per introdurre il discorso»), impervi attraversamenti stradali, il cibo («qui le uova sono il sale»), un certo carattere del popolo irlandese, testardo e caloroso, e – si direbbe – ignaro del cinismo (l’eccezione Oscar Wilde, «irlandese fino al midollo, scanzonato fino allo scandalo» conferma la regola o segna soltanto una peculiare genialità che il popolo non conosce…?).

L’atto d’amore di Pasanisi abbraccia una terra nella sua totalità di natura e cultura, ben salda su ancestrali mitologie colte e popolari insieme ma rivista nel confronto con la modernità di Heaney o Beckett e soprattutto Joyce. Che parrebbe costituire il polo antitetico a Yeats: l’élite aristocratica di quest’ultimo, un certo sentore mistico e una simbiosi «idilliaca con la natura» (che a giudicare da certi passaggi della scrittura di Pasanisi, un po’ enfatici e “poeticistici”, sembra sedurlo non poco), di contro al cosmopolita autore dell’Ulisse, «pronto a chiamare le cose con il loro nome», a intrecciare tragico e comico in un’esplorazione estrema del linguaggio che è anche una sfida verso la conoscenza umana senza tabù. Proprio con Joyce, Pasanisi si cimenta e bene nel genere del dialogo immaginario, facendogli dire cose molto divertenti, evidenziandone il lucido disincanto, il rapporto con Beckett, l’amore per una moglie che pure non capiva un’acca della sua opera. Così come diverte il ritratto che Pasanisi fa dello stesso Joyce che aveva una gran fifa dell’acqua e giunse alle isole Aran tremebondo. Se teniamo presente che, inclusi o meno nell’itinerario del libro, l’Irlanda è anche la terra di Swift, di Bram Stoker (l’autore del Dracula), degli O’ Brien, di G.B. Shaw, di William Trevor, per non dire dei recenti O’Connor e Roddy Doyle e di un giovane scrittore talentuoso di cui abbiamo parlato recentemente qui, Kevin Barry, autore della raccolta di racconti Il fiordo di Killary tradotta da Adelphi, ci sono motivi cospicui, dal semplice turista al lettore interessato alle cose irlandesi per non farsi mancare questo libro, indubbiamente ricco di suggestioni (nonché, abbiamo detto, di utilissime “dritte”) e corredato di decine di fotografie in bianco e nero.

(Fabrizio Pasanisi, L’isola che scompare. Viaggio nell’Irlanda di Joyce e Yeats, Nutrimenti, 2014, pp. 240, euro 18)

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