“Il fiordo di Killary”
di Kevin Barry
di Michele Lupo / 9 ottobre 2014
Cambiar vita, l’idea ingenua e velleitaria quanto si vuole di mollare tutto e ricominciare daccapo da un’altra parte, in tutt’altra veste, in tutt’altra maniera: capita ad alcuni personaggi dei racconti contenuti ne Il fiordo di Killary di Kevin Barry (Adelphi, 2014), scrittore irlandese tradotto per la prima volta in italiano in una silloge che include storie sparse fra due raccolte diverse. Non è al patetico però e per fortuna che bisogna pensare ma all’intensità comica dell’arte narrativa di uno scrittore tanto interessante quanto divertente. Abilissimo nel distribuire pensieri (dei protagonisti) sul che fare nella vita e la quotidiana messa in scena di casi strampalati solo in apparenza, talentuoso nella scelta del ritmo con cui infilare battute secche e stranianti, Barry offre squarci fulminei di vita irlandese vivida secondo tradizione di una letteratura nobilissima.
Ne è un ottimo esempio il racconto eponimo, brillante resoconto in diretta di un abbaglio: un poeta instabile e perplesso, in fuga da se stesso, di fronte all’alluvione che sta per distruggergli l’albergo sul fiordo e alla temperatura erotico-alcolica dei suoi avventori che sale assieme all’acqua per le scale, medita sulla sciocchezza che ha fatto ad acquistarlo. Abbandonare la città per un luogo in fondo ostile (se «gli indigeni erano dediti a formidabili variazioni d’umore», il personale estivo era costituito da «un vociferante branco di bielorussi pieni di ormoni, che non facevano che trombare da mane a sera») non pare esser stata una grande idea, tanto da pensarne un’altra ancora più stravagante: vendere tutto e comprarsi «mezza Cambogia». Le distanze, i chilometri da percorrere per andare da un luogo all’altro, suonano peraltro come argomento di conversazione ricorrente fra i personaggi: forse perché corrispondono a passaggi esistenziali, come sa la donna che abbandona il marito violento. E anche la gioventù sembra null’altro che un tempo da lasciarsi alle spalle, un tempo di sviste, di inciampi: via da lei, dopo le prime delusioni amorose, la vita prova davvero a cominciare. Ma fra pub e sale-giochi che fanno da contraltare alle «colline pietrose fuse nella luce verdastra» prossima all’oceano, fra vino e birra che non mancano mai (a meno di non avere problemi a pagare le bollette per mantenere un locale), e cani ululanti, non è detto che la vita adulta offra garanzie certe. Non è detto che saperne qualcosa in più su se stessi salvi i personaggi di Barry, faccia percorrere loro sentieri meno accidentati. E a volte sorprendenti com’è nel caso di due sinistre, terribili vecchiette che scopriamo scorrazzare su una Toyota in cerca di bambine…
Lo humour nero (punteggiato da improvvise inserzioni liriche e da taglienti scarti grotteschi) è il collante che tiene insieme queste storie, del cui stile la bella traduzione di Monica Pareschi restituisce la purezza cristallina. Uno scrittore, Kevin Barry, da cui c’è da aspettarsi felici sviluppi.
(Kevin Barry, Il fiordo di Killary, trad. di Monica Pareschi, Adelphi, 2014, pp. 171, euro 17)
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