“Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson
L’incontro impossibile tra Philip Marlowe e Il grande Lebowski
di Francesco Vannutelli / 27 febbraio 2015
Totalmente ignorato agli ultimi premi Oscar, a cui era arrivato con due nomination per i migliori costumi e la migliore sceneggiatura non originale, Vizio di forma è il settimo film di Paul Thomas Anderson, il più ambizioso almeno nella premessa letteraria di confrontarsi con uno dei più importanti scrittori statunitensi di oggi, Thomas Pynchon, e uno dei suoi più recenti romanzi.
Siamo nel 1970, alla fine del decennio della controcultura, del pacifismo e dei freak. I miti sono morti assieme ai sogni: un Kennedy, poi un altro, Martin Luther King, Malcom X. C’è Nixon al potere, Ronald Reagan governa la California, e tutti i sogni di libertà che erano ritenuti possibili sono stati spazzati via da Charles Manson e dalla sua setta. Larry “Doc” Sportello è un detective privato che vive sulle spiagge di Gordita Beach, periferia di Los Angeles. Non è ancora pronto al cambio di decennio. La sua vita è ancora droghe e piedi nudi, approssimazione ed eccessi. Un amore – il grande amore di un tempo – bussa una notte alla sua porta come aveva fatto tante altre volte in passato. Non torna da lui, non è lì per quello, ha solo bisogno dei suoi servizi come investigatore. Il suo amante, Mickey Wolfmann, un magnate dell’immobiliare molto più grande di lei, sembra essere in pericolo per colpa della moglie che vuole internarlo e prendersi il capitale. Mentre cerca di capire cosa stia succedendo a Wolfmann, Doc finisce accusato di omicidio dall’agente di polizia “Bigfoot” Bjornsen, suo eterno nemico/amico che lo ha trovato privo di sensi accanto a un cadavere. Non basta: dovrà cercare anche un sassofonista scomparso e capire cosa si nasconda dietro al nome “Golden Fang”.
Paul Thomas Anderson è uno specialista nel raccontare i momenti di svolta della storia partendo da vite dall’apparenza marginale. Ha iniziato con Dirk Diggler e l’epoca d’oro della pornografia statunitense con Boogie Nights, celebrazione triste del tramonto della cinematografia erotica e dell’irruzione della fruizione personale portata dalle videocassette.
Era solo un abbozzo di un discorso generale che voleva raccontare gli Stati Uniti attraverso gli anni chiave dei suoi cambiamenti. Anderson ha ripreso e approfondito il discorso, elevandolo a percorso di crescita, a partire dal 2007 e da Il petroliere. Di fatto, la storia di Daniel Plainview è il racconto dell’infanzia di una nazione (gli Stati Uniti, ovviamente) dall’inizio del XX secolo alla prima grande crisi che ne sconvolse gli equilibri – quella del ’29 –, passando per la fine della corsa all’oro (anche se è argento) e l’esplosione del petrolio, la fine della dottrina Monroe e la prima guerra mondiale.
Dopo l’infanzia c’è stata la prima adolescenza, quella di Freddie Quell di The Master, reduce dal secondo conflitto globale e perso senza un’identità in una società in cui non sa reintegrarsi e in cui vaga come un ragazzino alla ricerca di una guida, pronto a cedere alle promesse più sbagliate, come la setta di Dodd.
In questo possibile percorso di crescita, Vizio di forma continua da dove era arrivato The Master, da un paese quindi che si è sviluppato in un’adolescenza sconfitta, che ha tentato a ribellarsi a quella società che continua a sentire distante e che adesso si avvia all’età adulta. Doc Sportello è il protagonista di un mondo che ha perso in cui gli ex fricchettoni che volevano cambiare tutto passano le loro serate con motociclisti nazisti, lavorano come infiltrati e si concedono come amanti a dentisti eccessivi o a immobiliaristi corrotti.
C’è un legame tra Vizio di forma e la versione cinematografica di Il lungo addio di Raymond Chandler firmata Robert Altman, un legame formato da una serie di piccoli e solidi nodi che collegano anche Pynchon a Chandler come modello di noir. Paul Thomas Anderson non ha mai negato il debito che il suo cinema ha nei confronti di Altman, tanto che nel 2006 Anderson era lì pronto ad assistere il maestro durante le riprese del suo ultimo film, Radio America, a sostituirsi a lui se fosse stato necessario.
Il Marlowe di Altman distruggeva da solo un’epoca di cultura cinematografica rinascendo – metaforicamente – in un nuovo presente con cui non aveva niente in comune. Sportello non si è ancora rassegnato al cambiamento dei tempi e rimane lì in bilico sull’inizio del decennio, senza staccarsi dai Sessanta per non precipitare nel vortice dei Settanta sempre più giù fino al baratro dell’edonismo reaganiano che segnerà gli anni successivi. Sono due personaggi fuori tempo massimo, Marlowe e Sportello, che osservano con la lontananza della non appartenenza il cambiamento del mondo intorno a loro. Certo, Sportello non sembra affatto rendersene conto, perso com’è appresso alle droghe. Ma con Marlowe non ha in comune solo i fiammiferi accesi e buttati ovunque. C’è lo sguardo malinconico e ironico, la solitudine e l’incapacità di essere.
In fondo, quello di Anderson è sempre stato un cinema di personaggi perdenti e isolati e la sua regia lo ha sempre sottolineato in campi lunghi di devastante solitudine, come si vede in questo video collage del filmaker Jacob T. Swinney.
A differenza di Quell, o Diggler, o del catalogo umano di Magnolia, Doc Sportello non viene lasciato al centro di campi infiniti, il registro è differente, non ci sono mai veri e propri grandi spazi in cui annegare i personaggi, ma Doc è altrettanto solo. Shasta, l’amore di un tempo, non c’è più, e lui non riesce a staccarsene. Anderson lo fa capire subito con il piano sequenza di più di due minuti in cui Sportello la riaccompagna alla macchina, all’inizio del film: una passeggiata senza stacchi per non rassegnarsi a una nuova separazione, con quella mano che indugia sulla coda dell’auto come a cercare di trattenerla. Ci sarebbe Bigfoot, che forse è il suo unico amico e che come lui è solo nel dolore della perdita del suo compagno di squadra, ma non riescono a dirselo, ad avvicinarsi, simboli di due mondi distanti, di due ideologie – alternativa e sgangherata Sportello, rigorosa ai limiti del fascismo Bjornsen – che non possono incontrarsi mai. L’unico conforto che ha è Sortilège, presenza a cui spetta anche il compito di voce narrante, che non è dato capire se sia reale o il prodotto di una perenne allucinazione.
Sportello è l’incontro impossibile tra il Marlowe altmaniano e Il grande Lebowski dei Cohen (con un po’ di Neil Young), con la sua sciatteria, il suo abbigliamento improbabile e quella perenne pigrizia stonata. Si possono usare parole come “antieroe” e ci stanno tutte, anche perché Sportello non solo non è un eroe, ma non viene mai mostrato come tale. Perché in questa galassia di solitudine che è la Los Angeles post hippie non c’è bisogno di serietà.
Anderson ha spinto ancora più in là l’umorismo del Marlowe di Altman contaminandolo con i primi maestri del demenziale, Zucker-Abrahams-Zucker, e i padri della comicità da fumatori di erba, il duo comico Cheech e Chong. Vizio di forma si spinge oltre i confini del genere noir e della commedia, ha momenti quasi slapstick, una bromance potenziale fatta di banane al cioccolato, e quella deformazione perenne della percezione data dall’uso costante delle droghe. Non è solo Sportello a essere allucinato, è tutto il film a risentirne. L’evoluzione dell’indagine e della trama, del resto, potrebbe risultare come un unico costante trip. I personaggi appaiono e scompaiono accanto a Sportello, la sua ricerca va avanti con biglietti, incontri, telefonate dall’apparenza casuale ma tutte collegate tra di loro. C’è poca chiarezza, ma è chiaro che non è quello l’obiettivo di Anderson. Se vale il discorso del paragone biologico, Vizio di forma è il simbolo del momento di confusione tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta. Non è dato capire tutto.
Ci sarebbe da parlare ancora, del livello altissimo della regia, della fotografia di Robert Elswit e della sapienza tecnica nell’alterazione dei colori, di Joaquin Phoenix che è oltre i confini della bravura, di Josh Brolin splendido Bigfoot, della colonna sonora di Jonny Greenwood che quasi impercettibile crea una tensione costante, delle canzoni di Neil Young, di quel momento splendido in cui Shasta ricompare e seduce Sportello sul divano, delle cravatte e della droga, di Eric Roberts e Benicio Del Toro, di Paura e delirio a Las Vegas e di M.A.S.H., ma non è necessario. Basta Vizio di forma, vederlo una volta, magari due.
(Vizio di forma, di Paul Thomas Anderson, 2014, commedia, 148’)
LA CRITICA
Capolavoro semplice e complesso allo stesso tempo, da vedere più volte, da capire poco alla volta o da non capire mai. Cambia poco. Vizio di forma è l’ennesimo punto brillante nella carriera di uno dei più importanti autori del cinema contemporaneo.
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