“Gli ospiti paganti”
di Sarah Waters
Un amore sfrontato e un delitto inevitabile dentro un astutissimo equilibrio narrativo
di Cristiana Saporito / 27 gennaio 2016
Patrick O’Brien e le guerre napoleoniche, i sospiri di veliero, le folate di spionaggio. Clive Cussler e il filone d’avventura, Roald Dahl e le girandole d’infanzia. Ci sono autori votati a una causa del racconto, perché incastonati in quegli assi cartesiani, sentono di veicolare il meglio del loro poter dire. Oltre a diventare una garanzia di vendita.
Ecco, anche Sarah Waters ha chiaro e vivo il suo nido narrativo. Rinforzato da anni di eccellenti romanzi, come Ladra e Carezze di velluto. Il contesto prescelto è quello vittoriano o i suoi immediati strascichi e le vicende dipanate si consumano tra donne. Innamorate di altre donne.
Geografie di cantina destinate a morire di polvere, perché nell’indiscussa “età della facciata” certi umori, certi tremiti erano indicibili, erano condanna. Restando spesso ostaggio dei sogni o sommersi da litri di matrimoni eccellenti.
Sarah Waters ha scelto di far parlare quegli angoli, di soffiare su quell’ombra la forza di una storia intensa, smacchiante, ineludibile. Come ha fatto anche stavolta, con Gli ospiti paganti (Ponte alle Grazie, 2015).
Siamo nei dintorni di Londra del 1922. Le cicatrici di guerra prudono ancora, per le strade, sotto le maniche. I marciapiedi abbondano di sopravvissuti, ex militari amputati anche nell’orgoglio, costretti a combattere di più, senza neanche le braccia per poter mendicare. Tante famiglie si ritrovano sventrate, svuotate di uomini e quindi di guadagni. Come quella di Frances Wray, ventisettenne solitaria (meglio ancora zitella) impegnata ad accudire sua madre e una casa immensa immolata alla rovina, con troppi costi per le loro tasche smagrite.
La loro fortuna è evaporata in fretta, come i due fratelli Wray, falciati sul campo di un odio insensato; come il capofamiglia, stroncato di crepacuore, ma appena in tempo per disperdere i loro ultimi averi col vizio del gioco. Solo loro le vere reduci, dunque, chiamate a battagliare ogni giorno, a rassettare vestiti una volta sontuosi, a barcamenarsi per non soccombere. Perché la guerra di chi muore lascia sempre il posto a quella di chi resta.
Decidono così, di affittare il loro piano superiore, accettano l’idea di confermare per tutti la propria indigenza. Ma i nuovi arrivati, ovviamente, non apporteranno solo qualche risorsa per ristorare il bilancio. Sono due giovani sposi i coniugi Barber, Leonard e Lilian. Lui, rampante e ambizioso e sicuro di sé. Lei, morbida e bella d’incertezza lucente, abituata a piacere a chiunque, ma non a sapere cosa le piaccia davvero.
Non resta quindi che innescare la reazione. Somministrare un lento e costante attrito tra le parti. Radente, volvente, chiamato allo scoppio. Nella coppia così nuova e già sgretolata s’insinua Frances, quel potente sapersi diversa fin dal suo sempre.
Frances è sola perché lo desidera, perché sceglie di non svendersi per la buona creanza, per noleggiare un grammo di sollievo sul viso di sua madre. A lei piacciono le donne, come le piacque Christina, così tanto da infatuarsene, ma non abbastanza da affrancarsi da tutto. Così come le piace Lilian, che non sospetta da/per se stessa un amore così drastico. Così ventoso da non lasciarla in piedi. Da diventare delittuoso.
Inutile aggiungere frattaglie di trama. Bisogna addentrarsi, annusare le stanze, i broccati, il camino. Palpeggiare le impronte dei suoi inquilini. Lasciarsi guidare dalla scrittura.
«Era l’affitto di due settimane. Cinquantotto scellini: Frances riusciva già a sentire il fruscio delle banconote, lo sfregamento e il tintinnio delle monete. Mentre prendeva la busta dalla mano della signora Barber e se la infilava in tasca con aria vagamente distratta, cercò di atteggiare i suoi lineamenti a un’espressione da trattativa d’affari – come se qualcuno, pensò, rischiasse di rimanere ingannato e credere che il denaro fosse una mera formalità, e non l’essenza, il gretto cuore e il gretto nòcciolo di tutta la faccenda».
E in questo l’autrice scozzese non oltraggia i presupposti, setacciando con grazia e maestria tutti gli elementi dell’intreccio. L’atmosfera di contegno forzato, di scricchiolante decoro che pervade dialoghi e pensieri; l’apparenza stantia come un cappotto dismesso; l’eredità fatiscente di un tempo ostinato.
Il tremore prima sommesso e poi incontenibile di un sentimento bandito. Lo sfondo sociale che pizzica il singolo, il dilemma ammorbante tra volontà e morale, tra verità e salvezza. E logicamente, inglobando nell’orbita l’acme del crimine, la levigata architettura dell’attesa, una suspense ingegneristica che soppesa e nasconde, rivela e sottrae.
Scrittrice di genere? Certamente. Il genere di scrittrice che merita e coltiva un fatale mestiere di parole.
(Sarah Waters, Gli ospiti paganti, trad. di Leopoldo Carra, Ponte alle grazie, 2015, pp. 576, euro 18,60)
LA CRITICA
Sarah Waters mette a segno un ennesimo riuscito romanzo nella Londra post-vittoriana fatta di impeti e crepe moleste.
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