“Di uomini e bestie” di Ana Paula Maia
Un viaggio «nel retrobottega violento della nostra civiltà»
di Cristiana Saporito / 18 aprile 2016
«Ho una piccola cosa africana da dirvi: “un vecchio negro in un mercato indigeno che intreccia tabacco” l’odore umido e palpitante sale dalle dita, la sottigliezza “ritmica” delle dita giunge ad essere un dolore, ferisce nella testa il pensiero della sua devozione estrema quasi “intattile” su qualcosa, “qualcosa tabacco”, ciò che comincia a divenire come una “pazzia commossa”». Queste righe accorpate d’un fiato, in modo da non sembrare versi, sono di Herberto Helder. Poeta portoghese sfuggito alla fama come si fa coi creditori, avvezzo alla penombra, alla fatica poco lirica di sbracciarsi dietro l’angolo. Scrivendo spesso degli ultimi nel modo in cui può fare solo uno di loro.
Il libro di Ana Paula Maia Di uomini e bestie (laNuovafrontiera, 2016) appartiene d’urgenza a questo richiamo. Stessa lingua, anche se travasata oltre oceano, stessa miseria ruggente, senza sprazzi e senza sonno.
Protagonista della vicenda è Edgar Wilson, storditore in una fazenda brasiliana. Il suo lavoro è guardare negli occhi i bovini, tracciare sulla fronte il punto di vernice in cui sparare e poi abbatterli con la sua mazzetta. Il suo lavoro è vederli stramazzare, inspirare quei muggiti che cesseranno in fretta, imbrattarsi le pupille di quel sangue inconsapevole, essere immondo fino al midollo. Gli schizzi lo trapassano, perforano gli abiti, le sue immaginazioni, non ci sono occhiali che lo possano salvare.
La sua vocazione, il solo sistema che conosce per alleviare il suo mestiere, è minimizzare il danno. Rendere a quelle bestie la grazia di una morte stretta. Senza fronzoli d’inutili torture.
Averne pietà, più di quanta ne riservi agli uomini. Che di pietà per lui ne hanno riservata poca. Ma anche questo non sarà sufficiente per affittargli una zolla di conforto: «Edgar sa che Dio è nell’alto dei cieli e che Egli sorge tutti i giorni come il sole. Conserva la sua fede, ma sa che la sua violenza non gli permetterà mai di vedere la faccia del Creatore […] Dove andrà sarà come stare dentro una miniera di carbone, sotterrato nelle profondità […] In un certo senso, lui aspira a questo, perché sa che alla luce del giorno esiste il giudizio mentre all’ombra, è tutto coperto»
Edgar vive di niente, quello stesso niente d’aria che sottrae alle sue vittime. Lavora sodo, dorme poco, tracanna caffè e non si fida di nessuno. D’altronde, intorno a lui aleggia un pulviscolo di creature atomizzate, sporche e solitarie esattamente come lui. Ma ancora più aride, capaci a volte di sfamarsi con lo strazio delle mandrie. Carnefici totali, immersi in quei lamenti come in un acquario. Coscienti e intrisi di tutto il grumo di lavoro sporco che si acquatta dietro un hamburger.
Edgar e gli altri sono i traghettatori silenziosi di un processo marcio, sbiancato con dovizia nell’imballaggio da scaffale, nel tempio asettico di un supermercato o nella giostra di un fast food. Sono una classe di reietti, destinati a non godere di ciò che consentono. A loro i cadaveri, agli altri la carne.
Proprio a questo è ispirata la precedente trilogia di Ana Paula Maia, da lei stessa definita «La saga dei bruti», in cui ritroviamo Edgar Wilson, esempio eccellente di uomo fantasma, socialmente rimosso o marginalizzato, boia impeccabile condannato ad accollarsi il bruciore dei desideri altrui, quell’appetito che nelle sue mani si fa delitto. Sono i nuovi schiavi, inabili a slegarsi dalla propria condizione, come invece, a dispetto di ogni previsione, provano a fare le bestie. Abbrancando una libertà insolita, estrema, più umana di quegli uomini che le vedono saltare.
Questa è una letteratura degli esclusi, dove il prossimo non è mai realmente vicino, dove non esiste ristoro possibile, dove le ore sono ingrate e imbottite di polvere, come quelle accattone di Rico ne Il sole dei morenti, dei personaggi dei racconti di Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti o di Palmiro, dell’enorme e dimenticato Luigi Di Ruscio. Perché la disperazione ha sempre la stessa latitudine. Ci si riconosce nello sguardo di chi sopravvive, come dentro una lingua materna.
Umido e buio è il loro universo, sporco del sacrificio continuo. La fantasia non ci prova nemmeno, a candeggiare l’orrore, come fa ad esempio il protagonista de Lo stordimento di Joël Egloff, impiegato in un macello esattamente come Edgar, ma capace di trasformare un torrente arrugginito in una sorgente illibata o perfino d’innamorarsi.
Qui no. La scrittura è asciutta come la sete, cruda e pungente, ideale a intagliare atmosfere tarantiniane, come afferma anche Maria Fernanda Garbero nel suo testo in appendice. Qui non si può. Qui si muore ogni notte, senza mai ricordarla. Qui si può solo scuoiare ogni istante come fosse una belva, intuire nell’Altro lo stesso animale ramingo, spossato d’afa e di minacce. Votato alla mattanza. Anche quando è lui a sparare.
Di uomini e bestie si parla. E ancora una volta è fin troppo facile confondersi.
(Ana Paula Maia, Di uomini e bestie, trad. di Marika Marianello, laNuovafrontiera, 2016, pp. 121, euro 14,50)
LA CRITICA
Ana Paula Maia ci propone uno splendido romanzo degli indegni. La storia di Edgar Wilson, storditore in un macello capace di provare pietà per le sue vittime, perché vittima anche lui del suo destino/mattatoio a cui non può sfuggire.
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