Carlo Betocchi e la storia
Un «muto discorso anonimo» che cerca di farsi universale
di Fabrizio Miliucci / 21 aprile 2016
La poesia di Betocchi sorge sulla poesia italiana degli anni Trenta come un’alba silenziosa e nuova. Dalle pagine di Il Frontespizio, la rivista da cui si staccherà un gruppo di intellettuali “dissidenti” che getteranno le basi per una stagione di altezze verticali e inespugnabili nel disegno di una letteratura come vita, il cattolicesimo «pasquale e creaturale» di Betocchi risuona, con tutti gli armonici di un Ottocento ancora vitale, della gioia e del mistero della (ri)nascita, all’indomani della fine della Grande Guerra.
Si capirebbe molto poco del periodo dell’entre-deux-guerres e di tutto quello che è venuto dopo nel panorama della nostra poesia e storia spirituale, ignorando un autore ormai quasi estromesso dal canone novecentesco come Betocchi. Padre, anzi fratello maggiore dei prossimi Luzi e Caproni, ma anche di autori insospettabili come Emilio Villa (su cui ci ripromettiamo di tornare), Betocchi cantò con accenti oggi quasi incomprensibili la dignità del dolore e la bellezza e la purezza («l’odore casto e gentile» dirà Penna) della povertà.
Diciottenne, aveva partecipato insieme ai suoi colleghi del ’99 alla rotta di Caporetto, scrivendo negli anni presaghi dell’altra guerra, quando il fascismo cominciava a farsi rampante nella sua smania di egemonia, un resoconto in due puntate recentemente ripubblicato dall’editore Raffaelli di Rimini: L’anno di Caporetto:
«Che cosa è in questa vastità tetra e fragorosa, pur nel suo silenzio viscido e quasi mortale, quanto ho raccontato e quanto sto per raccontare io a proposito di infinite inezie? Ero uno di quella moltitudine e quello che io vedevo, certo, faceva parte di tutto il tragico quadro al quale insieme concorrevamo: ma con quale timore rinnovo la mia memoria, le cose da nulla che mi occorrevano, le ricerco, le soppeso e quante volte ripetutamente rimango accasciato e pieno di sfiducia su queste pagine!» (C. Betocchi, L’anno di Caporetto, Raffaeli, 2014, p. 38)
Nel 1932 esce la sua prima raccolta, Realtà vince il sogno. In essa si condensa il punto di partenza di un autore che avrà negli anni uno sviluppo decisivo nella descrizione esistenziale di una vita sondata sin nei più nascosti recessi sentimentali e psicologici, e di una fede vissuta sempre con un’ombra di sospetto sul cuore. Ma per ora gli scenari betocchiani sono quelli della Toscana rurale e cantante dove aveva vissuto la giovinezza, nonostante fosse nato a Torino. Uscite importanti sono ancora Altre poesie (1939); Il vetturale di Cosenza (1959); L’estate di San Martino (1961) e Un passo, un altro passo (1967) che inaugurano una stagione di lunga e sofferta vecchiaia in cui il tono si fa più discorsivo dilatandosi in lunghe lasse di versi.
Per questo poeta tutto raccolto nel mistero dell’uomo si è di rado messa in rilievo l’adesione dolente a una storia che condensa il cuore nero del Novecento, e che emerge anche nei più insospettati paesaggi sospesi su un senso di imminente fatalità, quando invece non compare nell’interezza della sua devastazione, come in Rovine 1945:
Non è vero che hanno distrutto
le case, non è vero:
solo è vero in quel muro diruto
l’avanzarsi del cielo
a piene mani, a pieno petto,
dove ignoti sognarono,
o vivendo sognare credettero,
quelli che son spariti…
Ora spetta all’ombra spezzata
il gioco d’altri tempi,
sopra i muri, nell’alba assolata,
imitarne gli incerti…
e nel vuoto, alla rondine che passa.
Sulla sospensione reiterata di quei tre puntini che mozzano la frase indicibile sta il segreto di una umanità che prova a rialzarsi nell’assurda certezza del proprio dolore («non è vero… solo è vero»). Il cielo, sembra dire un Betocchi flâneur delle rovine, può pesare sulle coscienze più di una maledizione. Nella verità e nella realtà di una condizione il più vicino possibile alla elementarità dell’uomo risuona l’eco della perdita e dell’assenza, stemperata sulla figura cristologica, salvifica e terribile, della rondine che passa. Tuttavia la perdita e l’assenza di Betocchi non indulgono mai al cupo ripiegamento dell’anima, e conservano in sé una forza creatrice che ben descrive ciò che, passiti i primi giorni di quel ’45 evocato nel titolo, diventerà la voglia di riscatto della ricostruzione.
Quello che i poeti della generazione successiva hanno imparato da Betocchi forse più che da chiunque altro è stato descrivere per via di suoni elementari ma forti, spezzati, il fragore interiore degli eventi storici, individuali e generazionali. I ritmi furiosi e l’accavallarsi di suoni base nelle assonanze di i/e/o («a piene mani, a pieno petto, / dove ignoti sognarono, / o vivendo sognare cedettero») o nell’iterazione delle a («Ora spetta all’ombra spezzata / il gioco d’altri tempi, / sopra i muri, nell’alba assolata») rappresentano il più vivo esempio di una composizione che unisce la volontà descrittiva al resoconto subliminale di uno stato d’animo scosso e pronto a reagire. Ancora alcuni versi di guerra da Isernia: «[…] M’han parlato col cuore qui ad Isernia, / in tanti; e mi sentii inverdire, addosso, / gli stinti panni di guerra del quindici, / quando infittivan reggimenti / come di foglie, è canto d’Ungaretti, / su cui passava l’autunno».
Betocchi è un poeta dalle aperture folgoranti, dalle descrizioni piene di grazia ed energia, dalle ripetizioni perentorie e dalle negazioni desolate e risentite. La sua vicenda poetica, oggi un po’ abbandonata, conduce al cuore del secolo e del contrasto non per via intellettuale ma seguendo le tracce di un «muto discorso anonimo» che cercava così di farsi universale.
Dai tetti
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore;
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
– Siamo – dicono al cielo i tetti –
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe dei tuoi granai.
O come divino spazia su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
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