“Schmilco” degli Wilco
A un anno di distanza da Star Wars, l'ultimo lavoro della band di Chicago
di Redazione / 11 novembre 2016
Cos’è successo a Jeff Tweedy e ai suoi Wilco? Il loro ultimo album, Schmilco, uscito a settembre, è stato spesso dibattuto e ha generato molte domande all’interno della Redazione di Musica. Più o meno per tutti, è stata grossa la delusione. Dopo un periodo di reticenza nell’affrontare il discorso, Giada Ferraglioni, Valerio Torreggiani, Alessio Belli, Tommaso di Felice e Luigi Ippoliti hanno pensato che, nonostante Schmilco fosse palesemente un album minore all’interno della discografia della band di Chicago, il fatto che fosse ancora argomento di discussione meritasse un momento di condivisione e di confronto. A due mesi di distanza le cose sono cambiate?
GF: Cari vecchi Wilco. Se c’è una cosa che mi aspetto da loro, è che riuscirò sempre a riconoscerli in pieno già dal titolo della prima canzone. E come a ogni ascolto di ogni album, dopo un primo momento in cui la voce di Jeff Tweedy mi porta a sorridere e a distendere la schiena sulla sedia, dopo aver superato soddisfatta le prime quattro/cinque tracce, mi ritrovo a pensare sempre la stessa cosa: che cosa diventerebbe l’intera discografia della band riprodotta in versione strumentale? Mentre Tweedy marca senza fatica tutto quello che sono, dietro di lui accade di tutto; e non ci vuole molto prima che la curiosità diventi desiderio. Non fraintendetemi, gli Wilco hanno il bisogno reale di un Jeff-Caronte con il cappello da cowboy che li traini nel mare del folk alternativo e del successo mondiale. Ma se Schmilco è qualcosa, oltre a essere un familiare e rassicurante ripasso della band, è l’ennesima riprova della grandezza tecnica sullo sfondo e del perché, grazie soprattutto a John Stirratt, Paul Sansone e Nels Cline, sono a oggi uno dei pochi gruppi per cui vale la pena pagare il biglietto sopra i trenta euro.
AB: A proposito di pagare il biglietto, il sottoscritto ha ancora ben impresso cosa è stato quel fantastico live romano tenuto a luglio dagli Wilco e considerando quanto sia legato alle vicende musicali di Tweedy&Co. farò del mio meglio per risultare il più critico e obiettivo possibile. Diciamolo subito: Schmilco è un bel disco. Come diceva giustamente prima di me Giada, gli Wilco continuano a essere una band impeccabile e la loro maestria e classe non delude mai. Se il precedente Star Wars era un concentrato genuino e rockeggiante di brevi momenti schietti e diretti, Schmilco è l’esaltazione del lato country-acustico della band. Vi dirò la mia: è tutto troppo liscio e quieto in Schmilco. Preferisco Star Wars (le session sono le stesse), i suoi momenti di tensione purissima – “You Satellite” – al pacifico scorrere di quest’ultimo ravvicinato successore, sicuramente sopra la sufficienza, con pezzi in alcuni casi notevoli, ma che non aggiunge nulla (e nemmeno toglie, ovviamente) alla produzione Wilco.
VT: Non so se avete mai visto Amore e guerra, di Woody Allen. Nel film, a un certo punto, c’è una frase che fa più o meno così: «E c’erano il vecchio Grigorij e suo figlio, il giovane Grigorij. Stranamente il giovane Grigorij era più vecchio del vecchio Grigorij. Nessuno riusciva a capire come fosse andata». Ecco, questo nuovo disco degli Wilco dà un po’ la stessa straniante sensazione di essere fuori tempo e fuori luogo: più vecchio di se stesso, dei suoi più vicini predecessori e persino dei suoi modelli. Il che è tutt’altro che un merito. Forse è il successo che crea strani compagni di letto, ma sotto questa copertina pseudo-folk mi pare si sia consumato un deludente menage a trois di chitarrine banali, ritornelli scontati ed escamotage da quattro soldi. Pensate a “Commons Sense”, un tranello sperimentale che di sperimentale non ha nulla, e sta lì che gira su se stesso per tre minuti e mezzo che sembrano quindici. E temo che Giada s’illuda se crede che dietro Jeff Tweedy ci sia qualcosa che non sia soltanto un enorme, innocuo, deja-vu. Forse Alessio ha ragione: Schmilco non toglie nulla ai Wilco che furono. Certo però che noia.
TDF: Giada ha aperto una questione molto interessante: band per le quali vale la pena pagare un biglietto di (almeno) trenta euro. Per diversi motivi, tenendo anche conto del mercato musicale, penso siano davvero pochi i gruppi che meritano un tale sforzo economico da parte dei fan. Detto questo, gli Wilco e il loro Schmilco non credo rientrino più tra questi, purtroppo. Per assurdo, l’album è anche simpatico, piacevole nelle sue sonorità e nei suoi ritmi folk ma, facendo un paragone con i lavori precedenti della band, non possiede un’anima e si fa fatica a finirne l’ascolto. Davvero un peccato. Gli Wilco sembrano aver scelto una strada più facile e meno profonda, fatta eccezione per “Cry all day”, l’unico pezzo che davvero merita. È questione di sostanza, con Schmilco passerete un piacevole viaggio in macchina ma non rimarrà nei vostri ricordi come è stato per “Summerteeth” e i vari “Mermeid Avenue”.
LI: “Cry All Day”, Tommaso, mi sembra un riassunto mediocre di qualcosa che è stato preso alla rinfusa da Yankee Hotel Foxtrot – che rimane il loro punto più alto –, risistemato un attimo e buttato dentro Schilmco. Ma in generale, tutto l’album sembra il tentativo della cover band degli Wilco che prova a fare sul serio gli Wilco scrivendo canzoni degli Wilco. Un giochetto che fa pure tenerezza che piano piano si trasforma in tristezza – non che alla fine mi aspettassi molto, non avendo neanche particolarmente apprezzato Star Wars, Alessio. Tweedy sembra rincorrere a fatica la sua voce, si muove in certi suoi schemi melodici che non dicono più molto oggi, appiattendo di fatto il tutto. Giada, probabilmente non avremo mai la risposta a cosa potrebbero essere gli Wilco senza di lui e probabilmente gli Wilco stessi non avrebbero più motivo d’esistere. Prendiamo ad esempio i Midlake di Antiphon senza Tim Smith: cosa sono? Sostanzialmente nulla. È molto probabile che non ne abbiano più. Ci sono dei pezzi che sono delle parodie di altri loro pezzi: la già citata “Cry All Day” (mi dispiace, Tommaso), “Someone to Lose”, “Happiness” – Valerio, rispetto a te sono più possibilista per quanto riguarda “Common Sense”: può sembrare una furbata, ma quantomeno è fatta bene. È triste dover assistere al probabile declino di un gruppo come gli Wilco, ma pare non abbiano più il guizzo, l’intuito, la creatività. Cose che sembrano ricercare negli altri: tipo in Joan Cornellà, che ha disegnato la copertina. Una grande rock band dal vivo, per cui vale ancora pagare trenta euro solo per il modo in cui suonano, e una rock band annoiata da salotti annoiati in studio, che non regge più il confronto con ciò che era.
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