“Perdersi” di Charles D’Ambrosio
il New Journalism dello scrittore di Seattle
di Luigi Ippoliti / 22 maggio 2017
Quando gli scrittori americani guardano con la lente d’ingrandimento gli estremismi, le follie, le contraddizioni, le paure e le paranoie della società statunitense riescono sempre, in un modo o nell’altro, a parlare di tutti noi. Quantomeno di tutta quella parte di mondo chiamata Occidente che ha vissuto, volontariamente o involontariamente, la mitologia degli Stati Uniti sulla propria pelle: quegli animali sociali figli della vittoria del capitalismo più sfrenato.
Qualche anno fa, John Jeremiah Sullivan ci riusciva con Americani (Sellerio), ora Charles D’Ambrosio alza ancora di più il tiro, e in Perdersi (minimum fax, 2016) traccia le coordinate dell’asse culturale del suo paese in una discesa verso il proprio inferno.
La narrazione che gli americani fanno dell’America – dalla letteratura al cinema, passando per il marketing – permea ogni momento delle nostre vite. La questione è: l’alienazione che proviamo leggendo dei prefabbricati della Fleetwood nel cuore degli Stati Uniti è davvero qualcosa di estraneo oppure rievoca scenari che già conosciamo? È veramente fuori dal mondo la Hell House, una sorta di parco dell’orrore ideato da organizzazioni paracristiane, quando siamo abituati alle moltissime degenerazioni di stampo religioso che pullulano in ogni angolo degli Stati Uniti?
Non è paradossalmente più straniante, per esempio, 33 attimi di felicità del tedesco Ingo Shulze? Pensare, oggi, all’America come insulare, unicamente autoriflessiva, che parla di sé per parlare di sé, risulta fuori luogo. Oramai l’America parla di noi.
Il punto di vista di D’Ambrosio, in Perdersi, è quello di chi è fuori dal mondo e lo osserva, ma al tempo stesso ne è circondato. L’insegnamento di David Foster Wallace, la sua capacità irridere ed essere irriso dal mondo (Tennis, tv, trigonometria e tornado e Una cosa divertente che non farò mai più) è qui mischiata con la desolazione di certe immagini nei lavori di Adrian Tomine e le fredde ma familiari geometrie di Chris Ware. D’Ambrosio incarna la solitudine dell’essere umano in una società che goffamente cerca in tutti i modi di nasconderla e dimenticarla. Perché in quei prefabbricati della Fleetwood, o nella Hell House, o a caccia di balene nel profondo Ovest, D’Ambrosio non è da nessuna parte, si perde, ed è solo.
La stessa solitudine di suo fratello Danny, quando ha deciso di spararsi un colpo in testa, e dell’altro fratello, Mike, salvo per miracolo dopo essersi buttato dall’Aurora Bridge, raccontate attraverso un parallelismo eccezionale con la storia di J.D. Salinger, scrittore e uomo, e soprattutto con l’idea di suicidio che corre lungo Il Giovane Holden.
Ed è inoltre la solitudine di D’Ambrosio quando si chiede, forse nel punto più alto di Perdersi, cosa sarebbe riuscito a fare per Danny se ne avesse avuto la possibilità.
La grazia dell’autore di Il museo dei pesci morti di vivere assimilando la solitudine e ricostruirla nella sue storie ricorda quella di Richard Yates (Undici solitudini), e ha lo stigma della grandissima letteratura.
Perdersi ha in sé lo sguardo maestoso dei Saggi di Montagne filtrato dalla grande sensibilità della tradizione americana del secondo dopo guerra. Non è una raccolta di saggi, una raccolta di racconti, un reportage o romanzo moderno. È tutto questo insieme. È un’opera necessaria per capire in quale direzione stiamo andando.
(Charles D’Ambrosio, Perdersi, trad. di Martina Testa, minimum fax, 2016, pp. 312, euro 18)
LA CRITICA
Erede del New Journalism, voce dell’alta letteratura americana, Charles D’Ambrosio mostra in Perdersi l’universalità dell’uomo qualunque in un Opera che colpisce per profondità e intelligenza.
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