“Le notti blu” di Chiara Marchelli
Lo strappo innaturale della perdita di un figlio
di Cristiana Saporito / 13 giugno 2017
Oggi tocca a Le notti blu. Però esiste un prima. Abbastanza indissolubile. Prima c’è stata Paula. Ma a quindici anni sei talmente figlia, in modo così osceno e ubriacante, che leggere di una madre incastrata al capezzale della sua creatura ti sembra solo una favola appuntita. Perfetta per titillare il tuo palato inquieto. Poi t’imbatti in un testo quasi accidentale, una lettura prestata da chi poco ti conosce. Un anno nero per Miki di José Ovejero, in cui un uomo qualunque si ritrova solo e incrudelito, senza moglie, senza figlio e con un deserto d’anima addosso. Slavina di buio che però non ti s-travolge. Il terzo libro si chiama Riparare i viventi di Maylis de Kerangal e lì ti congeli.
Non prosegui, deponi l’osso. E non perché la storia non meriti o sia indegnamente riferita. Ti arresti perché nel frattempo sei diventata madre. E apprendere, seppur in forma recintata da apposita finzione, che tutto quello che resta da decidere su tuo figlio è acconsentire o meno di espiantargli il cuore, ecco, può essere chiederti troppo. Così, quando ho approcciato Le notti blu di Chiara Marchelli (Giulio Perrone Editore, 2017), tra i dodici finalisti del Premio Strega, sapevo non sarebbe stato facile.
La vicenda è quella di Michele e Larissa, cresciuti, rinforzati, intrisi oltre se stessi in un matrimonio pluritrentennale. Hanno attraversato un continente e vallate d’angoli. Hanno smussato, ruggito, cercato e offerto perdono come si fa col cibo. Sono arrivati al punto di anticipare il bisogno dell’altro. Di berlo dallo sguardo. Finché, un Capodanno sbriciolato tra gli altri, Mirko, quel figlio nominato come la «gloria del mondo», ingoia la morte sul letto. Mirko si ammazza. Ingerisce e aspetta. Avvelenando il suo sangue e quello che gli borbotta intorno. Cancellando ogni altro Capodanno.
Per sua moglie, che impazzisce e si sfinisce. Ma soprattutto per Michele e Larissa. Certo, quel filo di vita apparente non viene tranciato. Michele continua a insegnare. La sua matematica d’azzardo, quella Teoria dei giochi sdoganata da John Nash, secondo cui in un sistema non cooperativo, s’instaura un equilibrio dato dall’adozione da parte di tutti di strategie dominanti. Ogni giocatore cerca di fare il massimo. E questo giova a ciascuno. O quanto meno limita i danni. Ma Michele sa che la realtà si diverte a confutare le promesse più valide. Una sola decisione ha annichilito le altre per un tempo non svelato.
«La scelta del giocatore più importante li ha gettati in un sistema caotico e imperscrutabile, dove valgono Leggi che né lui né Larissa conoscevano». Anche lei continua ad alzarsi, a occuparsi dal marito, a impastare di farina ogni martedì, per la focaccia che piaceva a Mirko.
Ma non c’è più nulla che piaccia a lei. Resiste solo un crepaccio, una bocca di dirupo che tracanna i loro giorni. Quel costante insonne non aver capito, non aver neanche immaginato cosa poteva dilaniare loro figlio. Quello che sembra un essere noto, lo stesso brandello di carne capace poi di stare in piedi, di camminare lontano, ma che comunque resta sempre avvinghiato al midollo.
Michele e Larissa credevano di sapere. Che Mirko amasse la terra come un sogno possibile, che la osservasse per leggerla e decifrarla. Che fosse felice della donna al suo fianco. E basta qualche minuto per schiaffarli in un “eppure” senza sosta. Per iniettare nel respiro un indigesto sapore di alieno. Che non svuota mai la gola. Che dilaga oltre l’addio.
Dopo cinque anni di esistenza superstite, spunta una lettera imprevista. Una donna dichiara di aver avuto un figlio da Mirko. E poi scompare. Così, ancora una volta, Michele e Larissa sbalzano secoli e miglia fuori da sé, da ciò che supponevano di aver accettato. Forse c’è un nipote, forse c’è un pianeta, ennesimo, di coloro che amiamo, che sfugge al nostro tocco. Che non rientra nel riparo del ricordo.
Ciò che già ha ucciso, torna a infierire. Il non detto, l’impensato, il territorio dell’altro che nessun geologo saprà delineare. L’immancabile suicidio di una verità imprendibile.
La narrazione rimbalza, tra il presente di New York, la Liguria e Courmayeur. Luoghi di corpo e di memoria che lasciano sempre un lembo scoperto. Quelle Notti blu in cui non si può dormire. Quel quartiere segreto oltre il lutto, oltre il dolore, dove accedere è solo un’impressione.
Il linguaggio è asciutto, secco, senza nessuna concessione al vezzo. Puntuale e bruciante, come ciò che racconta. Con un’enorme lezione sul petto.
La mappatura delle emozioni, quelle dell’Io come quelle del Tu, rimane un Gioco irrealizzabile.
Un sistema non cooperativo a cui non possiamo sottrarci. Destinato a fallire. Destinato a non finire.
(Chiara Marchelli, Le notti blu, Giulio Perrone Editore, 2017, pp. 223, euro 15)
LA CRITICA
Chiara Marchelli propone un romanzo difficile, sullo strappo innaturale della perdita dei figli. Con un approccio essenziale e lucido, capace di mettere a fuoco un territorio sempre in ombra.
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