La realtà è sopravvalutata
“Cometa” di Gregorio Magini
di Giovanni Bitetto / 14 maggio 2018
Da qualche giorno tiene banco – attraverso interventi e riflessioni varie – il dibattito sul fantastico italiano. La categoria di fantastico agisce in modo sotterraneo nella letteratura italiana – basti pensare alla linea novecentesca di Savinio, Landolfi, Morselli, Buzzati – ma, da quello che rilevano commentatori e canonizzatori, oggi lo sconfinamento di tali fascinazioni nel romanzo realistico genera opere ibride quantomeno interessanti.
Si parla di weird: categoria che in sé racchiude gli elementi della grammatica fantastica e fantascientifica e anche della speculative fiction tornata in auge a livello internazione grazie ad autori-teorici come Jeff VanderMeer (nel mio piccolo ne parlavo a proposito di un padre dimenticato come Clark Ashton Smith).
I nomi nel carniere italiano sono ben noti: Andrea Gentile, Orazio Labbate, Luciano Funetta, Gabriele Di Fronzo e – come nobile pioniere afferente a una certa idea di “letterarietà” – Michele Mari. Una categoria così ibrida può essere interpretata e stiracchiata verso lidi più lontani, e allora a questo ventaglio ci aggiungo anche le narrazioni umbratili – borghesi e antiborghesi al tempo stesso – di Giordano Tedoldi, che a parer mio è uno degli autori italiani più interessanti, o per usare una metafora spicciola uno che riesce ad “accendere la luce della prosa”, solo che la luce illumina solo ombre.
Mi chiedo se alle cinquanta sfumature di fantastico non se ne possa aggiungere l’ennesima, quella del “fantastico virtuale”. Si potrebbe obiettare: sì, tu stai parlando di fantascienza. Più che a mondi ulteriori o linee temporali in cui agisce una tecnologia diversa dalla nostra, io penso a un fantastico che distorce la realtà in quanto psichedelico, ovvero che agisce sui sensi e mette in dubbio lo statuto del reale. Non so come altro definire un’opera come Dai cancelli d’acciaio, romanzo-mondo di Gabriele Frasca, o La vita riflessa di Ernesto Aloia, opere in cui la virtualità diviene la categoria narrativa primaria, l’ambiente che sconfina nella vecchia realtà materiale fino a corroderne le categorie epistemologiche alle fondamenta. Questi romanzi hanno l’ardire di mettere in scena l’architettura del social network e di sperimentarne la distorsione cognitiva, il nuovo patrimonio simbolico ibrido, simulato e dissimulato, in transizione verso la molteplicità del simulacro. In quello che chiamo “fantastico virtuale” (categoria faceta e inventata sul momento, mi si perdoni la poca organicità) non si inventano mondi altri, non si costruiscono territori che sconfinano nell’ignoto, ma si dà conto delle ripercussioni dei molti mondi a noi sconosciuti – o conosciuti tramite strumenti che non controlliamo pienamente, come gli algoritmi – a cui quotidianamente accediamo tramite le finestre tecnologiche. Non si tratta di essere pirati dell’Internet, di magnificare le potenzialità della virtualità come nei decenni precedenti, ma di prendere atto del cambiamento del nostro paradigma, e accettare la natura ibrida di umani (de)potenziati dalle appendici tecnologiche – fisiche e cognitive.
A tali spunti di riflessione faccio risalire L’impero del sogno l’ultimo romanzo di Vanni Santoni , un romanzo che di fantasy ha solo l’universo di appartenenza, ma che si dispiega come un gioco intertestuale, una foresta di simboli che riunisce l’immaginario pop dagli anni Ottanta fino a oggi, esplodendo in citazioni televisive, ludiche o videoludiche. Poco ci manca ad affermare che Santoni abbia scritto – con maggior onestà di Spielberg – un Ready Player One formato libro (che esiste già, è il romanzo di Cline da cui è tratto il film, ma di cui io non ho memoria). Il romanzo di Santoni funzionerebbe bene come ipertesto, librogame, esperienza in VR.
Devo gettare la maschera: ho inventato la categoria di fantastico virtuale per parlare dell’ultimo nato in casa Neo Edizioni, Cometa di Gregorio Magini. Il romanzo di Magini è un concentrato di cinismo, arguzia, fantasia, rivisitazione di modelli, dal pop videoludico alla letteratura postmoderna. Un piccolo spaccato della sua prosa ci fa capire subito il tono adottato: «I miei genitori scopavano sempre e mi piaceva guardarli. Il mio primo ricordo è mamma in ginocchio che sussulta sotto i colpi del bacino di papà. Mi godevo lo spettacolo e mi succhiavo le gengive». L’incipit dissacrante ci colpisce e dà inizio a una storia sfuggente, una commedia grottesca in cui l’iniziazione sessuale – molto materialista, non c’è dubbio – di due amici nerd si presenta come l’occasione per ripercorrere in maniera sarcastica trent’anni di storia italiana: dalla bambagia degli anni Ottanta, all’impegno politico dei Novanta, fino al grand guignol del movimentismo dei primi anni Duemila. Ma questa è solo la prima parte: fino a qui Magini ci ha intrattenuto, ci ha fatto ridere strappandoci qualche sorrisetto cinico, un’operazione lodevole ma ancora sotto la sua portata.
È nella seconda parte che si concretizza l’attacco corrosivo alle categorie della realtà. L’elemento virtuale – che già si infiltrava sinuosamente nella prima parte come segmento delle vite dei due amici – si fa preponderante fino a divenire totalizzante, un climax ascendente che a rivelarne gli esiti toglierebbe fascino al romanzo (no spoiler, suvvia). Posso solo anticipare che la dinamica di accumulo grottesco raggiunge le estreme conseguenze, portandoci in mondi altri poco apparentati con il reale di tutti i giorni.
Quello di Magini è quasi un romanzo di formazione di due startuppari della Silicon Valley, ma in salsa italiana. Solo che alla fine non sono i geek a modellare il mondo – come vorrebbe l’ideologia corrente – ma è un multiverso imploso a spalancarsi come un baratro policromo di fronte ai protagonisti dai sensi tecnologicamente aumentati. Il nume tutelare di Magini sembra essere Houellebecq: l’autore toscano prende la poetica del francese e la svuota dei cascami filosofici, estremizzandone il cinismo, la componente tecnocratica e la riflessione sul corpo. Dal metronomo che oscilla tra iniziazione sessuale dei protagonisti e iniziazione al rito della virtualità scaturisce una concezione del reale evanescente, come soggetta all’entropia di un’antenna sintonizzata a intermittenza. Non so se Magini creda che il reale è sopravvalutato, di sicuro l’architettura ibrida del suo romanzo rende la realtà – intesa come verosimiglianza – obsoleta. La transizione verso una nuova concezione di rappresentazione è iniziata – se non addirittura compiuta. Non rimane che sperimentarne le possibilità e godersi la scena o – come direbbe qualcun altro – la scenicchia.
(Gregorio Magini, Cometa, Neo Edizioni, 2018, pp. 248, 15 euro)
LA CRITICA
Un romanzo dallo stile dissacrante che ibrida virtualità e riflessione sul corpo, centrifugando tutto in un’accattivante commedia grottesca.
Comments